Un paio di idee in testa, o meglio speranze, in effetti, zu Binu ce l’ha. Una è di cercare rifugio da Salvatore Lo Piccolo, ma Provenzano teme che al di là dell’affetto dimostrato, Lo Piccolo possa approfittare dell’occasione per prendere il suo posto, magari facendolo sparire e dicendo che è morto di vecchiaia. L’altra è rappresentata da Matteo Messina Denaro, il capomandamento di Castelvetrano che ormai è il capo incontrastato di tutta la mafia trapanese.

Matteo è giovane, ha 43 anni. E quando era poco più che un ragazzo ha ideato e partecipato personalmente alle stragi del ’93. Ha una buona cultura, ha studiato. Suo padre, il mitico don Ciccio, morto latitante nel 1998, dal 1963 era un sorvegliato speciale, ma la qualifica d’indiziato mafioso non gli aveva impedito di diventare a Castelvetrano l’amministratore delle terre della potente famiglia dei D’Alì, proprietaria a Trapani della Banca Sicula, un istituto di credito poi venduto alla Comit anche grazie alla consulenza del futuro deputato Giuseppe Provenzano, l’ex commercialista di Saveria Palazzolo.

Cresciuto fianco a fianco ai rampolli dei D’Alì, uno dei quali, Antonio (Forza Italia), è stato dal 2001 al 2006 sottosegretario al ministero dell’Interno, Matteo negli anni ’80 è un giovane esuberante. In paese ancora lo ricordano mentre scorrazza in Porsche verso il lido di Marina di Selinunte e fa le ore piccole al Paradise Beach. La bottiglia di champagne Cristal sul tavolo, il Rolex Daytona al polso, i pantaloni di Versace e il foulard di seta al collo. Gli amici allora lo chiamavano Diabolik. Un po’ perché divorava i fumetti del ladro in calzamaglia; un po’ perché si sentiva imprendibile. Per lui la vita andava vissuta tutta di un fiato. Era un femminaro e non lo nascondeva: amava le donne e le auto veloci. «Voleva farsi montare due mitra che uscivano dal cofano della sua macchina blindata», racconta oggi uno dei suoi uomini «L’idea gli era venuta leggendo proprio un fumetto».

Ma Messina Denaro, a differenza di Diabolik, non è un fuorilegge gentiluomo. Sparare gli piace. E uccidere pure. «Con le persone che ho ammazzato, io potrei fare un cimitero», confida a un amico. Non a caso, per tutti i primi anni ’90, anche lo Zio lo evita, non vuole incontrarlo perché teme che il boss, unico esponente dell’ala stragista di Cosa Nostra ancora libero, approfitti dell’occasione per farlo fuori. Poi però, a poco a poco le cose si appianao. Matteo va spesso a Bagheria dove ha un’amante, la sorella di una buona amica dell’ingegnere Michele Aiello, il presunto prestanome di Provenzano; è imparentato con la famiglia Guttadauro, gestisce dei beni che appartengono al clan dei corleonesi. Insomma troppe persone e troppi interessi lo legano a Binnu perché la freddezza tra di loro possa durare.

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