“Tuo nipote Alessio”
A partire dal 2000 i due si scrivono di continuo. Matteo con Provenzano usa sempre il lei e firma le sue missive con lo pseudonimo «il suo caro nipote Alessio». Il 6 febbraio del 2005, 9 giorni dopo gli arresti di Villabate che hanno portato in carcere Nicola Mandalà e i suoi uomini, il capomafia trapanese si siede al computer e compone una preoccupata lettera indirizzata al vecchio Padrino: «Carissimo mio, spero tanto di trovarla bene in salute così come le dico di me. Le comunico che ho ricevuto tutti i suoi compresi gli auguri per le festività e la ringrazio tanto. Mi spiace tanto per tutto quello che è successo e spero che lei sia al sicuro e in buone mani. Dopo tutto ciò credo che i nostri contatti si siano interrotti [in] caso contrario questa mia la terrà in custodia 121 aspettando che lei lo contatti, anche se penso che dopo quello che è successo anche 121 è in bilico. Io purtroppo non ho altre strade per trovare lei, posso solo aspettare che sia lei a farsi sentire quando potrà».

La persona che Matteo indica con il numero 121 è uno dei tre fratelli Guttadauro, Filippo, che d’ora in poi farà sempre da tramite tra loro. Sarà lui a far arrivare a Binnu i messaggi in cui Matteo dice al capo dei capi di essere «a sua disposizione» e spesso aggiunge «tutto quello che faccio» [parla di estorsioni] la metà è per lei».
Gli attestati di stima del giovane capomafia nei confronti di Provenzano si sprecano. Prima di chiedere consigli sulla gestione degli appalti pubblici e su problemi legati alla territori di competenza delle varie famiglie mafiose «Alessio» sottolinea: «in lei ripongo fiducia, onestà e capacità, quello che prima per me era T.T.R». Il riferimento è per Totò Riina, detenuto al 41 bis dal 1993, ma incredibilmente ancora in contatto con Matteo Messina Denaro. In uno dei pizzini si legge: «T.T.R. mi ha scritto è tutto bene».

Eh, sì, Matteo era proprio un bravo picciotto. Era uno pieno di premure, di attenzioni. Di quello che poteva ferire il fantasma di Corleone nemmeno parlava. Tra le tante lettere che Provenzano portava sempre con sé ce n’erano due, del 2003 e del 2004, conservate con particolare cura, che stavano lì per dimostrarlo. Due missive in cui il boss di Trapani, su richiesta dell’anziano Padrino, ricostruiva tutti i passaggi di una storia vecchia e misteriosa, iniziata dieci anni prima, quando lui e Giovanni Brusca si erano convinti che Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, l’ex sindaco di Palermo, si fosse intascato 250 milioni di lire: la metà esatta di una tangente versata ad Alcamo da un’impresa per vincere l’appalto per la metanizzazione della zona. Sul momento Matteo e Brusca avevano deciso di farlo fuori. Ma Massimo viveva a Roma, dove assisteva il padre, e la cosa era piuttosto complicata. Poi nel ’97 anche Brusca era finito manette e il debito di sangue (certi sgarri si pagano solo con la morte) contratto da Cincimino junior era rimasto come sospeso. Finché Messina Denaro, in virtù degli ottimi rapporti dei Ciancimino con i Provenzano, lo aveva graziato. O almeno questo sosteneva il boss trapanese che a a zu Binu scrive:

«Per il discorso della metanizzazione i paesi di allora erano 6, so di preciso quali paesi sono, i soldi mancanti allora furono circa 250 milioni di lire, perché già prima tramite lei ci si era fatto uno sconto di circa 300 milioni di lire, però i 250 milioni di lire ce li dovevano dare, cosa che non accadde mai. Infatti lei dopo tempo mi disse che non sapeva più cosa fare e che questi non volevano più pagare e il discorso finì così: dopo tempo venni a sapere che l’ impresa in effetti i 250 milioni li uscì, solo che a noi non ci arrivarono mai perché se li rubò uno dei figli del suo paesano morto, questo figlio sta a Roma. Io di ciò non dissi mai niente a lei perché capivo che si poteva solo mortificare della cosa e quindi ho preferito far morire il discorso. Ora glielo sto dicendo perché è lei stesso a chiedermelo in caso contrario non avrei detto nulla, in fondo ognuno di noi risponde del proprio nome e della sua dignità. Questo figlio del suo paesano morto sa di aver rubato soldi non suoi e di sicuro si è divertito a Roma visto che abita là. Quello che non sa è che quei soldi erano destinati a famiglie di detenuti che hanno bisogno, ma comunque ritengo il discorso chiuso, se la veda lui con la sua coscienza».

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