È dopo la strage di via d’Amelio che Riina comincia a sentire puzza di bruciato. A Brusca, il boia di Capaci, confida: “In qualsiasi momento, vedi che ci sono i picciotti, Matteo e Graviano, che sanno tutte cose”. Tutte cose? Cosa intende Riina con “tutte cose”? A Rosario Naimo, il suo trait d’union con Cosa nostra americana e con gli ambienti dell’apparato statunitense, il capo dei capi dice anche altro: “Se mi succede qualcosa parlate solo con Matteo“. Insomma è a Messina Denaro e Graviano che Riina affida la sua eredità. Nei primi anni ’90 i due erano inseparabili, tanto che gli altri mafiosi li chiamavano “il secchio e la corda”. E quei due che Riina invia a Roma già nel febbraio del 1992 con l’ordine di uccidere Giovanni Falcone. Poi, però, ci ripensa e li richiama tutti in Sicilia, dove verrà organizzata la strage di Capaci. Perché? Non era più semplice uccidere Falcone a Roma a colpi di pistola, invece di far saltare in aria un pezzo di autostrada? Dopo Falcone, Riina fa uccidere Borsellino. Quindi, il 15 gennaio del 1993, il capo dei capi viene arrestato mentre sta andando a una riunione della Cupola: se lo avessero seguito avrebbero preso tutti i colonnelli di Cosa nostra. Compresi Messina Denaro e Graviano. Che invece in quei mesi organizzano le stragi del 1993, quelle delle bombe piazzate fuori dalla Sicilia. Il “secchio e la corda” radunano gli altri picciotti e gli indicano le foto stampate su alcuni opuscoli: ci sono le immagini degli Uffizi a Firenze, della torre di Pisa. È il secondo livello della destabilizzazione, quello che prevede di colpire il patrimonio artistico del Paese. Una mossa raffinata: i mafiosi l’hanno pensata da sola? O gli è stata suggerita? Quelle bombe non danneggiano solo basiliche ed edifici storici ma uccidono anche civili, ragazzi, persino neonati. E poteva persino andare peggio.

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