Un’altra vicenda mai completamente chiarita è anche la storia relativa all’ordine di morte emesso per Rino Germanà. Per tentare di ammazzarlo scende in campo la nazionale dei killer di Cosa nostra: Messina Denaro, Graviano e Bagarella. D’altra parte quello era poliziotto pericoloso, uno che conosceva a memoria la mappa dei clan in provincia di Trapani. Da lì aveva fatto carriera nella Criminalpol: nella primavera del 1992 sta indagando sui tentativi di condizionamento dei giudici del processo sull’omicidio Basile. Ha appena depositato un rapporto con dentro i nomi di Pietro Ferraro, un notaio massone di Castelvetrano, ed Enzo Inzerillo, senatore della Dc vicino ai Graviano: per il commissario sono quei due che si sono mossi per cercare di “aggiustare” la sentenza su Riina e gli altri. A quel punto, però, succede qualcosa. Prima i suoi superiori lo convocano a Roma per fargli una “cazziata” memorabile. “Volevano sapere se nel rapporto si parlava del ministro Mannino”. Poi lo retrocedono, inviandolo al commissariato di Mazara del Vallo, lì dove aveva cominciato da giovane poliziotto. È il settembre del 1992 e in Sicilia fa ancora molto caldo. Germanà esce dal commissariato e per andare a casa percorre una strada che costeggia il mare: in spiaggia c’è ancora tanta gente. A un certo punto, però, il commissario è costretto a inchiodare le ruote della sua Panda: una Fiat Tipo lo affianca, tagliandogli la strada. Dal finestrino spunta un kalashnikov e a Germanà cominciano a sparare addosso: lui prima si rannicchia, poi riesce a scendere dall’auto, a estrarre la pistola e rispondere ai colpi di arma da fuoco. Quindi corre in spiaggia, si butta a mare e si salva la vita. Sulla Fiat Tipo osservano: c’è troppa gente, l’agguato viene annullato. “A chi hanno fatto spaventare? A nessuno. Tanto non hanno fatto spaventare a nessuno, che poi quello si è buttato a mare…Germanà gliela facevano là, e lui si è buttato a mare”, dirà Riina molti anni dopo, ancora furibondo per il fallito attentato. Chi non si salva, invece, è Giovanni Falcone. Poche settimane prima della strage di Capaci, Messina Denaro dice a un amico di non andare a Palermo. Quello non capisce: “Ma come non andare? Io devo andarci ogni giorno per lavoro”. Il boss ha una soluzione: “E allora esci ad Alcamo o a Partinico e fai la strada vecchia”. L’importante era non prendere l’autostrada. Il 23 maggio, dopo l’Attentatuni, Matteo tornerà con un mezzo sorrisino stampato in faccia: “Adesso puoi andare a Palermo”. Raccontano che la sera della strage di Capaci, Diabolik ha brindato con gli amici in un pub di Marina di Selinunte: ha pagato persino un extra ai camerieri per il disturbo arrecato. Poi toccherà a Borsellino. Matteo lo odia da anni: da procuratore di Marsala voleva la sorveglianza speciale per suo padre. Già all’epoca Cosa nostra avrebbe voluto assassinarlo, ma a Marsala ci sono due boss che non sono d’accordo: quell’omicidio eccellente rischiava di fare rumore, di rovinare gli affari. Quei due verranno rapiti e strangolati.

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Messina Denaro morto, l’arrivo alla clinica di Palermo nel giorno dell’arresto. L’audio dei carabinieri: “Dicci il tuo nome”

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