Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’autobomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento.

Queste sono dichiarazioni di Giovanni Brusca, tratte dal libro Ho ucciso Giovanni Falcone, di Saverio Lodato. Tra le vittime innocenti di cui non ricorda il nome c’è anche una giovane ragazza incinta di 23 anni, Antonella Bonomo, strangolata, senza motivo. Questa gente, come dice il collaboratore di giustizia Santino di Matteo, padre del piccolo Giuseppe sciolto nell’acido, non fa parte dell’umanità. Sicuramente.

Nella realtà “umana”, tuttavia, è tornato proprio Giovanni Brusca, l’ex boss di San Giuseppe Jato, poi diventato collaboratore di giustizia, che all’età di 64 anni ha finito di scontare la sua pena. Dopo 25 anni di carcere, l’ex killer di Cosa nostra, soprannominato in lingua siciliana ‘u verru’ (il porco), oppure ‘lo scannacristiani’ per la sua ferocia, è un uomo libero. Adesso dice di “essere cambiato“, di essere “una persona diversa dal crudele uomo di mafia di vent’anni fa”. Di se stesso, nella sua veste di collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca ha detto: “Sono un animale, ho lavorato per tutta la vita per Cosa nostra…”

È vero. È nato in un famiglia mafiosa, figlio del boss Bernando Brusca e fratello di Emanuele e Enzo Salvatore, mafiosi e collaboratori di giustizia. Cresce a pane e mafia e all’età di 19 anni commette il suo primo omicidio per il clan dei Corleonesi, all’epoca capeggiato da Salvatore Riina, di cui diventerà il braccio destro.

Brusca, in carcere dal 1996, il 31 maggio 2021 è stato rilasciato, per fine pena, con 45 giorni di anticipo, ma rimane sottoposto a quattro anni di libertà vigilata, come deciso dalla Corte d’Appello di Milano. È stato scarcerato per effetto della legge n. 45 del 13 febbraio 2001, ovvero quella sulle “nuove norme per il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia”, che prevede sconti di pena per chi sceglie di collaborare con la giustizia. Una legge fortemente voluta da Giovanni Falcone il quale non avrebbe voluto sconti per i mafiosi non disposti, per principio, a collaborare con la giustizia.

Giovanni Brusca secondo il parere dei magistrati che lo hanno esaminato, è risultato affidabile, veritiero e collaborativo in tutte le sue deposizioni. Durante la sua lunga esperienza in Cosa Nostra è stato uno dei più spietati killer di Totò Riina. Poi una volta passato a collaborare con la giustizia ha svelato ai magistrati segreti e retroscena della cupola di Corleone, portando a galla anche i rapporti che la mafia aveva con il mondo politico e imprenditoriale. Grazie alle sue dichiarazioni fu possibile condannare decine di mafiosi in diversi procedimenti penali, dove anch’egli era imputato ed in cui ottenne rilevanti sconti di pena grazie al suo contributo.

Senza i collaboratori di giustizia non avremmo conosciuto la struttura interna di Cosa nostra e nemmeno quei piccoli brandelli di verità sui rapporti fra mafiosi e pezzi dello Stato. E soprattutto, senza le loro dichiarazioni, degli innocenti si troverebbero probabilmente ancora in carcere per delle stragi che non hanno commesso. Brusca esce, infatti, dal carcere in qualità di collaboratore di giustizia per le informazioni che ha dato ai magistrati.

Se da un punto di vista emotivo la notizia della sua scarcerazione fa rabbrividire da un punto di vista normativo appare corretta. Molti di quelli che oggi gridano allo scandalo, e che grideranno a squarciagola nelle prossime ore e giorni alla vergogna, cosa avrebbero preferito? Che venisse buttata via la chiave? È questa la soluzione? Se è così strappiamo la nostra Costituzione, facciamo prima e così evitiamo le polemiche deliranti e assurde degli ultimi giorni.

“Mi auguro”, invece, che l’art. 27 della Costituzione in tema di rieducazione e risocializzazione sia stato rispettato in tutte le sue forme e che, dunque, Brusca sia pronto a tornare in società, certa che i controlli saranno puntuali e serrati, a garanzia di tutti. “Mi auguro” che la lunga detenzione gli abbia fatto comprendere nel profondo l’orrore delle sue azioni criminali e il dolore insanabile che ha provocato ai familiari delle vittime e al Paese intero. Anche se il pentitismo morale, purtroppo, non rientra tra i requisiti della collaborazione. Il pentimento è un percorso intimo e personale che si raggiunge, se si raggiunge, con il tempo e con la consapevolezza piena del male provocato. Non può essere imposto e non è dato sapere se nel merito ha coinvolto Brusca.

Non mi auguro, invece, che mafiosi che non hanno mai collaborato con la giustizia, come i fratelli Graviano, un esempio “casuale”, ma come tanti altri che sono chiusi dietro ad una omertà insormontabile escano dal carcere godendo dei benefici di legge. Questa ipotesi è possibile ed oltremodo prevedibile a meno che il Parlamento, entro un anno, metta dei paletti alla normativa in tema di ergastolo “non più ostativo”.

Sì perché, dopo la sentenza Cedu e la Corte Costituzionale del 2019 e la Consulta di aprile 2021, è stato previsto che l’ergastolo ostativo è incompatibile con la nostra carta costituzionale. In poche parole, il mafioso, anche se in carcere non collabora con la giustizia, potrebbe oggi, dopo le pronunce, accedere lo stesso ai benefici penitenziari, per esempio ai permessi premio, e alla libertà condizionale.

Alla luce di questo pericoloso scenario dobbiamo impedire che passi il messaggio che non conviene più collaborare, che tanto prima o poi ci sarà la possibilità di accedere ai benefici premiali senza bisogno di parlare. Perché se passa questo concetto si aprirebbe il “tana libera tutti”, e non lo possiamo permettere. Per tali motivi, il Movimento 5 Stelle è l’unica forza politica in Parlamento ad aver depositato una proposta di legge che detta dei paletti rigidi in tema di concessione delle misure premiali anche senza la collaborazione con la giustizia.

In questo lavoro, tuttavia, non aiutano le polemiche strumentali, le ipocrisie, i discorsi slogan dei paladini ad intermittenza dell’antimafia, che alimentano solo le sofferenze dei familiari delle vittime che vivono in un vero ergastolo di dolore. Servono fatti concreti soprattutto a livello normativo. Poche parole ma fatti. Bisogna fare un grande lavoro di squadra e lavorare insieme per delineare entro un anno il “nuovo” ergastolo sulla base delle indicazioni date dalla Corte Costituzionale. Altrimenti l’alternativa sarà vedere tanti Graviano and company tornare in libertà e dopo, per “l’indignazione”, non c’è proprio spazio.

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