Oggi, 19 gennaio, a Palermo a fare gli “auguri” a Paolo Borsellino ci saranno anche due bambine che hanno preparato per lui e per la sua famiglia un regalo speciale. Sono le figlie di un poliziotto, uno di quelli che a Paolo faceva da scorta e che da allora non ha smesso di onorare la sua memoria continuando a indossare la divisa e a proteggere le persone più esposte. Si chiama Emanuele Filiberto e la scorsa settimana siamo stati insieme in Aula bunker a Palermo ad accompagnare Vincenzo Agostino a una udienza del processo che si celebra per la strage del 5 agosto 1989, dove persero la vita il figlio di Vincenzo, Nino, e la nuora Ida Castelluccio. Erano attesi Bruno Contrada e Guido Paolilli, ma nessuno dei due si è presentato e così, nell’attesa delle decisioni della Corte, ci siamo ritrovati con del tempo per conversare.

Le sue parole hanno alternato toni affettuosi, commossi, carichi di rispetto mentre ripercorrevano aneddoti di vita vissuta insieme a Paolo, a toni amari, quasi rabbiosi, mentre tornavano su quei fatti, alcuni più noti altri per niente, che danno la misura della solitudine di Paolo, della lucida consapevolezza che egli aveva di essere un “morto che cammina”, della distanza che una parte di Stato decise di tenere da Paolo, offrendolo come più facile bersaglio alla mano criminale che in un altro “19”, quello di luglio del 1992, lo spazzerà via insieme ai suoi angeli custodi. Queste parole mi hanno fatto riflettere su quanto, in fin dei conti, la tenuta dello Stato, e ancor di più la tenuta della democrazia, dipendano dalla fiducia.

Materia impalpabile, la “fiducia”, apparentemente molto meno decisiva rispetto ad altri materiali con i quali lo Stato mostra la propria forza: l’acciaio delle armi, la pietra delle carceri, il marmo dei Tribunali… La fiducia ha a che fare con la ragionevole aspettativa che ciascuno faccia il proprio dovere, quello definito dalle leggi e pure quello definito da una coscienza che si è ancora portati a presumere orientata al bene, anziché no. Infatti, con buona pace dei tuttologi da tastiera, nessuno di noi dispone in proprio delle informazioni da cui dipende quotidianamente la propria vita: la qualità dell’acqua, dell’aria, del cibo, la sicurezza dei trasporti, delle scuole, degli ospedali, la competenza dei medici nell’operare, dei giudici nel valutare etc. Tutto si regge fintanto che esiste tra i componenti di una certa società questo impalpabile legame che è la fiducia reciproca. La fiducia crea relazioni di gran lunga più resistenti rispetto a quelle generate dalla corruzione o dalla intimidazione. Penso che il crimine che lega tutti i reati descritti nel codice penale sia proprio il tradimento della fiducia. Paolo Borsellino ha fatto tutto il possibile per non tradire la fiducia che in lui veniva risposta, quella quota di fiducia di cui è titolare chi agisce in nome e per conto dello Stato.

Ad assumere questo punto di vista viene quindi facile fare gli “auguri” a Paolo, ribadendo il proprio impegno a fare altrettanto, soprattutto ogni qual volta si rappresenti lo Stato, soprattutto quando, rappresentando lo Stato, si abbia in mano la vita di chi è più vulnerabile. Convinti che per questa strada si inveri anche la profezia di Paolo:

La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.

Dal 24 di gennaio cominceranno le votazioni per eleggere il nuovo presidente della Repubblica, che più di chiunque altro è depositario della fiducia degli italiani nelle Istituzioni, sempre che se la meriti.

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