“Pezzi di merda”, “siete come gli animali”, “carogne”, “vi spacchiamo la testa”, “vi auguro il peggio della vita”. Sono solo alcuni degli insulti e minacce, reiterati nei giorni, indirizzati alla cronista Luisa Santangelo e alla redazione di MeridioNews, che alcune settimane fa ha realizzato un video intitolato “Catania canta come Napoli. Il viaggio nel cuore della musica neomelodica”. La giornalista ha raccontato uno spaccato della società etnea, legata alla musica di origine partenopea, dando voce ai cantanti catanesi, tecnici del suono e manager di eventi. Spesso ascoltata nei quartieri periferici, dietro la musica neomelodica c’è un business crescente fatto di sale d’incisione, concerti in piazza, serenate e feste. Nel servizio si fa riferimento ai testi che sempre più spesso parlano della malavita, e per questo sono citati due artisti che hanno parentele con la criminalità organizzata.

Il primo è Niko Pandetta, nome d’arte di Vincenzo Pandetta: pregiudicato e indagato per reati di droga. Soprannominato “il leone di Cibali”, Pandetta è nipote di Salvatore Cappello, per il quale ha scritto la canzone Dedicata a te, famoso boss detenuto all’ergastolo per diversi omicidi di stampo mafioso, e per essere stato capo dell’omonimo clan. L’altro cantante è Andrea Zeta, all’anagrafe Andrea Zuccaro, incensurato e mai coinvolto in inchieste, ma che porta in dote un cognome pesante. Il padre è Maurizio Zuccaro, esponente di spicco della famiglia Ercolano-Santapaola, condannato per associazione mafiosa e all’ergastolo per diversi omicidi. Il fratello è Rosario, imputato insieme al padre nell’ambito dell’operazione Piramidi dello scorso maggio. La Procura di Catania gli contesta “un’estorsione aggravata dal metodo mafioso” e la partecipazione “all’associazione mafiosa Cosa Nostra della provincia di Catania”.

Quando i due artisti scoprono che i loro nomi e le loro parentele sono citati nel servizio, iniziano a tempestare di messaggi la redazione. “Pezzi di merda, avete usato il mio nome senza alcun diritto, vi farò passare i guai”, scrive Zeta che in seguito aggiunge: “Spero di non incontrarvi mai… Tanto riconosco i vostri volti tramite Facebook… Non è una minaccia ma uno sputo in faccia te lo darei senza nessun problema”. Poi è la volta di Pandetta, che con una diretta facebook attacca la giornalista. “Siamo stati etichettati come mafiosi, figli di boss, nipoti di boss. Mi nomina a me e a Salvatore Cappello, che non sono nemmeno degni di nominarlo, in cui è mio zio che purtroppo ha sbagliato e oggi sta pagando”. Pandetta amante dei tatuaggi, si è fatto scrivere ‘zio’ sull’avambraccio con vicino un cappello, proprio per il rapporto che lo lega alla famiglia. “Io sono onorato di chi è mio zio e di quello che è – aggiunge nella diretta -, nonostante gli sbagli che ha fatto, perché per me è il numero uno”.

Nel corso del live social prima interviene un uomo che insulta la giornalista (“questa troia”) spiegando di conoscere dove abita, chi è il padre, che lavoro svolge e i precedenti penali a suo carico. “Vergogna – commenta l’uomo -, e tu ti permetti a dire Salvatore Cappello? E parla di voi”. Le informazioni però nei confronti della famiglia della giornalista non hanno alcun fondamento. Anche Zuccaro interviene durante la diretta live di Pandetta, e quest’ultimo gli chiede: “Ma in italiano come si dice “Ci spaccamu a testa?”. Zeta risponde: “Gli spacchiamo la testa”. Nei giorni successivi, Pandetta torna alla carica postando uno screen del video di Meridio in cui è inquadrata la giornalista, chiedendo a tutti i suoi utenti di condividere la foto per far sapere la sua verità e chi li ha “infamati”. “Mi lascia un po’ interdetta la violenza degli insulti usati – spiega a ilfattoquotidiano.it Luisa Santangelo -, e resto perplessa per i commenti sui miei familiari, è la cosa che mi preoccupa di più”. Il video all’inizio aveva avuto recensioni positive da parte dei cantanti e discografici intervistati, quando però Pandetta e Zuccaro hanno postato i loro commenti negativi, tutti gli altri hanno fatto retromarcia, scusandosi con i due artisti per quanto accaduto e per il “rispetto che portano alle loro famiglie”. “Abbiamo deciso di rendere pubblica la storia per raccontare come ancora oggi resista una certa mentalità secondo cui un giornalista dovrebbe chiedere il permesso prima di scrivere la verità – aggiunge Claudia Campese direttora di Meridio -. Mentalità che al Sud si declina spesso con un linguaggio intimidatorio che non può essere accettato”.

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