Trent’anni dopo la strage di via d’Amelio, l’omicidio di Paolo Borsellino è un caso ancora aperto. Per quale motivo? In Mattanza, il podcast sulle stragi del ’92 prodotto dal Fatto Quotidiano, vengono individuati cinque grandi misteri, cinque domande rimaste ancora oggi senza risposta sulla strage del 19 luglio 1992.

La prima riguarda l’agenda rossa di Paolo Borsellino. Secondo i familiari, subito dopo la strage di Capaci e quindi subito dopo l’omicidio dell’amico Falcone, Borsellino iniziò a utilizzare un’agenda di colore rosso che gli era stata regalata dai carabinieri. La usava per appuntare tutta una serie di intuizioni investigative, basate probabilmente anche sulle confidenze ricevute da importanti collaboratori di giustizia negli ultimi 57 giorni della sua vita e chissà cos’altro. Dopo la strage di via D’Amelio, quell’agenda non si trova più. Il giudice l’aveva lasciata all’interno della sua valigetta di pelle, che era all’interno della sua auto blindata. I poliziotti che arrivano per primi sul luogo della strage raccontano di aver notato degli uomini in giacca e cravatta che si aggirano intorno ai rottami carbonizzati delle automobili in via D’Amelio e sostengono di essere uomini dei servizi segreti. Trent’anni dopo noi non solo non sappiamo che fine ha fatto l’agenda rossa di Borsellino, ma non sappiamo neanche chi fossero quelle persone che si definivano agenti dei servizi.


Il furto dell’agenda rossa è il primo depistaggio del caso Borsellino. Il secondo è quello più noto, cioè quello delle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, il pentito fasullo. Perché le indagini sull’omicidio di Borsellino sono state depistate? Solo per trovare subito un colpevole da sbattere in prima pagina o per altri motivi? E in questo senso non si è mai capito perché Riina decise di anticipare l’omicidio di Borsellino. I fedelissimi del Capo dei capi gli fecero notare che un altro attentato eclatante di quelle dimensioni a Palermo avrebbe probabilmente provocato una reazione dello Stato. Ma Riina non volle sentire ragioni. Ordinò di uccidere comunque Borsellino prima possibile e disse che la responsabilità se la sarebbe presa lui.

Su che cosa stava indagando Borsellino? Che cosa aveva scoperto per giustificare la sua eliminazione a tappe forzate? Stava per caso indagando sulla strage di Capaci? Aveva capito che dietro l’omicidio di Falcone non c’era soltanto Cosa nostra? Aveva scoperto che c’era una trattativa in corso tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra e voleva opporsi? O stava indagando sui soldi che Cosa nostra aveva investito nelle aziende del Nord Italia? Aveva scoperto che quella dei miliardi provenienti dal narcotraffico, poi riciclati in attività lecite, era un pista che si incrociava con Mani Pulite, cioè l’inchiesta su Tangentopoli aperta dalla procura di Milano? Ecco, trent’anni dopo, non sappiamo neanche qual è il movente per cui Borsellino è stato assassinato.

Ignota è rimasta pure l’identità del traditore di Borsellino. Poche settimane prima di morire, il giudice si confidò con due giovani colleghi. “Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire” arrivò a dire. Perché un amico doveva tradire Borsellino e soprattutto chi era quell’amico? Trent’anni dopo non ne conosciamo l’identità. E forse in tutti questi anni il traditore di Paolo Borsellino ha affollato le cerimonie in ricordo della strage di via D’Amelio.

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