Era il 21 agosto del 2017 quando Giovanni Aiello moriva improvvisamente sulla spiaggia calabrese di Montauro, stroncato da un infarto, come rileveranno le due autopsie disposte immediatamente. Era il 26 febbraio del 2016 quando Vincenzo Agostino puntando il dito contro Giovanni Aiello nell’Aula bunker di Palermo gli gridava: “Sei tu!” riconoscendolo senza dubbi durante l’incidente probatorio come l’uomo che era andato a cercare il figlio Nino pochi giorni prima che fosse ucciso, il 5 agosto del 1989, insieme alla moglie Ida Castelluccio.

Era l’aprile del 2014 quando l’ex poliziotto Guido Paolilli, incalzato dalle domande del giornalista Walter Molino, si lasciava scappare: “Aiello, il collega? Quello era un fango. Uno che vendeva informazioni alla mafia”. E così, andando a ritroso, si potrebbe riavvolgere il nastro fino al 28 dicembre del 1964 quando Giovanni Aiello venne arruolato nel Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza.

Provare a seguire le tracce esistenziali di Giovanni Aiello, morto incensurato, significa ancora oggi tuffarsi dentro il “calderone” come con crescente senso di angoscia lo definiva Nino Agostino negli ultimi giorni della sua breve vita, parlando con i famigliari e con gli amici più stretti. Il “calderone” cioè il “posto” dove i singoli ingredienti, lasciati a bollire a lungo, finiscono per disfarsi, mescolandosi gli uni con gli altri, diventando indistinguibili: nessuno buono, nessuno cattivo, tutti utili a servire la pietanza a chi meglio sa immergere il mestolo.

Non è questo lo spazio per tornare sui dettagli della vicenda, mi preme piuttosto una considerazione generale.

Tutti i protagonisti decisivi di queste storie maledette hanno un tratto in comune: la resilienza. Un termine che ha prima di tutto un significato positivo, riferendosi a quei materiali che pur colpiti duramente riescono non soltanto a non andare in frantumi, ma se piegati riprendono la posizione originaria: incassano, non si spezzano, si distendono. Peccato che questa caratteristica bene si attagli anche a quel materiale umano particolare che sono i mafiosi e i colletti bianchi collusi, i quali, a prendere sul serio le recenti parole del Presidente Mattarella, sono semplicemente mafiosi a loro volta, perché, cito “o si è contro la mafia o si è dalla parte della mafia”. Tertium non datur.

Colpisce in queste storie la capacità diffusa e ripeto, decisiva, di tacere, di negare tutto, di farsi invisibili, di sopportare privazioni di ogni tipo, per anni, a volte per decenni, dentro un carcere o fuori da esso. Questa “solidità” criminale è la risorsa più importante che hanno le mafie ed infatti non esiste colpo più ferale per queste organizzazioni della decisione di collaborare con lo Stato dei propri affiliati.

Ma se esiste una moltitudine di “pentiti” di mafia, non esiste nemmeno un “pentito” di Stato. Non c’è un solo funzionario pubblico che abbia deciso di dire la verità sulle proprie e altrui responsabilità sul piano della collaborazione con le organizzazioni mafiose. Non c’è un solo “servitore infedele” che, pur pizzicato e condannato per qualche reato, abbia poi deciso di vuotare il sacco. La “solidità” in questa parte di sistema criminale è ancora più incrollabile.

Resta su questo punto memorabile la telefonata che il Paolilli farà al suo capo (di allora e non solo evidentemente) Bruno Contrada, rimproverandosi di essersi lasciato andare a quel commento su Aiello col giornalista Molino: sembra preso da sincera vergogna il Paolilli, per essersi fatto scappare una frase dopo trent’anni (!). Nessuno invece pare essere preso da vergogna per quello che non dice e non dirà mai.

A tutto questo possiamo soltanto opporre una eguale ed intransigente resilienza: lottando ogni giorno contro la frustrazione, contro la diffidenza, contro l’indifferenza che avvolge sempre di più queste questioni. Tutto attorno a noi milita a favore della distrazione, tutto è scrollatura di social, e se anche qualcosa colpisce o indigna dura lo spazio di un momento, poi viene travolto da altro, nell’indistinto (nel nuovo “Calderone”!) dell’intrattenimento, che nulla ha a che fare con la militanza.

Ci verrà ancora in soccorso la lunga barba bianca di Vincenzo Agostino, che mai desiste, la infinita pazienza amorevole dell’Associazione Rita Atria che a forza di scavare negli archivi trova la voce di Matteo Messina Denaro, la intransigenza di certi investigatori e di certi magistrati che non badano al proprio tornaconto. Aveva ragione Danilo Dolci nel dire: “Vince chi resiste alla nausea”, e chissà se gli furono mai di conforto le antiche parole di Archiloco: “La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. E i “ricci” alla fine vinceranno.

Articolo Precedente

L’Antimafia: “Dai clan attacco allo Stato, approfittano della crisi del Covid grazie a una grande disponibilità di denaro”

next
Articolo Successivo

“Messina Denaro sapeva della Trattativa Stato-Mafia”: le motivazioni dell’ergastolo al boss latitante per le stragi di Capaci e via D’Amelio

next