“Fu allora che compresi che lo Stato non sempre stava dalla parte dello Stato”. Così scriveva il prefetto Fulvio Sodano nella nota lettera pubblicata anni dopo l’improvviso trasferimento da Trapani ad Agrigento. La frase è inserita a corredo di uno degli episodi più significativi riportati dalla commissione Antimafia siciliana nella relazione presentata alla stampa sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. Sono 180 pagine in cui vengono riportati nero su bianco 8 mesi di lavoro, declinati in 51 sedute e 71 audizioni, e che mettono in fila una serie di avvenimenti che tra inghippi burocratici, vulnus legislativi, rallentamenti, rigidità amministrative e aggressioni mafiose ricompongono la mappa di un contesto in cui sottrarre un bene alla mafia ne determina spesso la sua fine, o per fallimento, nel caso delle aziende, o per vandalismo, nel caso di beni immobili. La commissione Antimafia siciliana, guidata da Claudio Fava, mette a fuoco – anche attraverso i noti casi Saguto e Montante – un vero e proprio sistema le cui numerose falle ben si accomodano in un contesto che stenta a creare le condizioni per reinserire i beni in un percorso di legalità. Tutt’altro, invece, tanto che il bene sequestrato subisce addirittura uno “shock” e cede, spesso, sotto il costo della legalità: “Il problema principale di un’azienda sottratta a Cosa nostra è – per paradosso – il cosiddetto ‘costo della legalità‘, ovvero l’insieme dei fattori finanziari e di mercato che un’azienda confiscata (come qualsiasi altra azienda che si muova sul mercato pubblico e privato senza scorciatoie, forzature o privilegi) deve saper affrontare”, si legge nella relazione. “Il caso Saguto è stato un’occasione persa anche perché si è ritenuto che il problema fosse solo lì”, dice Fava.

Un documento che dopo otto mesi di lavoro si pone come sprone per colmare “l’enorme gap ancora esistente tra gli obiettivi programmatici dell’Agenzia e i risultati realmente raggiunti”. L’impianto legislativo, il sistema delle confische e della sua gestione, il problema degli amministratori giudiziari, della loro selezione e dell’affidamento di più aziende e su che parametri. Sono tanti gli aspetti affrontati dall’Antimafia siciliana. E non mancano le storie nel dettaglio. Quello che succede, per esempio, nel caso della Geotrans, è una perfetta sintesi del contesto in cui prova a resistere una società sottratta ad un’economia dopata dal sistema mafioso e a inserirsi in un’economia sana. Quasi una lotta disperata, fallimentare in molti casi: nel 2019 il numero di aziende gestite dall’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc) era pari a 2.587, la maggior parte nel settore delle costruzioni, del commercio all’ingrosso e al dettaglio, delle attività immobiliari, nonché dei servizi pubblici, sociali e personali. Di queste il 30,15% si trova sul territorio siciliano: 780. Mentre solo il 25 per cento di queste imprese risulta ancora attiva, ovvero solo 654 imprese.

Gli Ercolano-Santapaola e il caso Geotrans – Si tratta di un’azienda di trasporti considerata un fiore all’occhiello nel contesto dell’economia mafiosa, vanta un fatturato di cinque milioni di euro, 120 mezzi e 30 dipendenti, proprietari sono Vincenzo Ercolano e Cosima Palma Ercolano, entrambi figli di Giuseppe Ercolano e di sua moglie Grazia Santapaola (sorella del boss Nitto Santapaola). Nel 2014 l’azienda viene sequestrata e nel 2019 confiscata. Da quel momento scatta per la Geotrans la “soluzione finale” voluta dalle famiglie Ercolano e Santapaola che si muoveranno creando due società nuove, di cui una perfino nella stessa sede dell’azienda sequestrata, così da essere divisi solo da una vetrata con la nuova gestione dello Stato. Gestione che viene data all’amministratore giudiziario, Luciano Modica, che riferisce alla commissione siciliana: “A ridosso della prima confisca era stata costituita una società cooperativa, la Rcl (dalla sigla del codice fiscale degli Ercolano, ndr), e quando il signor Ercolano comprese di aver perso il controllo della Geotrans, iniziò un’attività di sviamento della clientela dalla Geotrans a questa Rcl. Vedevo dal giorno alla notte i clienti scomparire…”. L’azienda perse subito l’80 percento dei clienti, mentre le spese aumentavano, addirittura quelle di trasporto: la società marittima Grimaldi, per esempio, aveva aumentato le tariffe dei traghetti del 10 per cento: “Ovviamente io chiamai il responsabile commerciale della Grimaldi che mi disse: “Guardi, questo aumento dal punto di vista del mercato è semplicemente un aumento a pioggia…” – così riporta alla commissione, l’amministratore – Quando poi fu sequestrata la cooperativa Rcl, trovai contratti fra questa società e la Grimaldi: la Rcl aveva delle tariffe un terzo più basse della Geotrans!”.

“Io non mi sono soffermato a pensare se il signore Ercolano avesse fatto un’altra società o meno…”, così risponde, invece, alla commissione Antimafia siciliana Alessandro Bisanti, responsabile commerciale della Grimaldi Group. Bisanti non si era “soffermato a pensare”, anche se i proprietari dell’azienda a cui aveva deciso di applicare una tariffa maggiore era quella sequestrata e poi confiscata agli Ercolano, mentre applicava una tariffa inferiore di un terzo alla neonata degli Ercolano, la Rcl: “Il signor Ercolano ancora era a piede libero, non è che io mi sono posto il problema – insiste Bisanti – Come non me lo pongo con altri quando si presentano con dei volumi considerevoli anche oggi… Signor Presidente, noi vendiamo posti-nave. Io mi limito a valutare i numeri e le richieste che mi fanno rispetto ad un costo di un biglietto proporzionato ai volumi che mi portano”. Dopo tante difficoltà, Modica decise di rinunciare ai vecchi clienti e di trovarne altri, salvando le sorti dell’azienda, ma ci è riuscito senza alcun supporto istituzionale: “Non abbiamo avuto un supporto, che so, dall’Agenzia dei beni confiscati. Zero totale. – riferisce l’amministratore – l’Agenzia l’ho vista veramente poco, se non in quest’ultimo periodo perché abbiamo concordato col nuovo dirigente la concessione della Geotrans ad una cooperativa di lavoratori appena costituita. Ma nei precedenti cinque o sei anni il rapporto con l’Agenzia è stato pressoché inesistente”.

L’Agenzia per i beni confiscati in numeri – Lo “zero totale” di cui parla Modica, viene ribadito, seppur con altri termini, in più occasioni nelle 180 pagine della relazione Antimafia. Un’assenza su cui forse pesa anche la carenza di organico. L’Anbsc ha sede centrale a Roma e distaccate a Milano, Napoli, Reggio di Calabria e Palermo. La sede di Reggio Calabria per province di Caltanissetta, Catania, Enna, Messina, Ragusa e Siracusa. Quella di Palermo per le restanti di Agrigento, Palermo e Trapani. “Una rilevante criticità – scrive la commissione – va osservata sul versante della dotazione organica dell’Agenzia e del personale effettivamente in servizio”. La pianta organica prevede “200 unità di personale: 19 di livello dirigenziale e 181 di livello non dirigenziale”, cosi riporta l’Antimafia siciliana. L’Ansbc invece ha 69 persone di cui 11 dirigenti.

Il caso della Calcestruzzi Belice e la richiesta dell’Eni – Se nel caso della Geotrans c’è un amministratore che insiste e salva il bene, in molti altri le cose non sembrano andare così. Come nel caso della Calcestruzzi Belice, il cui amministratore giudiziario, l’avvocato Vincenzo Leone, è anche amministratore della Inerti srl: “Due aziende concorrenti – si legge nella relazione – sullo stesso territorio e nello stesso settore; identico l’amministratore per entrambe; una delle due perde l’appalto a vantaggio dell’altra: eppure di questo manifesto conflitto d’interessi in Tribunale nessuno si accorge”. Così la Calcestruzzi Belice arriva sotto il controllo dell’Azienda nazionale dei beni sequestrati e confiscati quando è già in forte declino. Ma non basterà, a quel punto “il colpo di grazia” che “arriva con una sentenza del Tribunale di Sciacca che decreta il fallimento della società su istanza presentata dall’Eni per un debito presunto di circa 27.300 euro: un’inezia, rispetto ai flussi di fatturato complessivi, 1,2 miliardi di euro l’anno! Peraltro si tratterebbe di un debito contratto prima del sequestro, dunque nemmeno riconducibile all’amministrazione giudiziaria. Ma l’Eni è irremovibile, il tribunale inflessibile e l’azienda viene dichiarata fallita”.

Ma anche in questo caso c’è chi non si dà per vinto. Sono i lavoratori dell’azienda, che organizzano un presidio permanente di fronte alla cava di calcestruzzo per sei mesi. La loro determinazione porta frutti: nel luglio del 2017 la corte d’appello di Palermo annulla il decreto di fallimento e i lavoratori vengono riassunti, grazie anche ad un accordo sottoscritto dal Ministero dell’Interno. Non solo: gli operai si sono intanto riuniti in una cooperativa e si profila la possibilità di concedere loro in comodato gratuito i beni della Calcestruzzi. Ma, manco a dirlo, “tutto si blocca”. Come scrivono in una nota alla Commissione i dipendenti dell’azienda: “Siamo in attesa di una convocazione da parte della stessa Agenzia”. Nell’attesa si aggiunge l’ingiunzione di alcuni amministratori e consulenti della Calcestruzzi Belice che “chiedono il pignoramento dei beni dell’azienda vantando crediti, affermano, per mezzo milione di euro”.

Un vero e proprio fuoco di fila che porta Fava, relatore del lavoro della commissione Antimafia a chiedersi: “Questa azienda ha subito, solo per una congiuntura negativa, l’accanirsi di inerzie, svogliatezze ed eccessi sul piano istituzionale e giudiziario? Oppure dietro questa somma di fatti c’era un disegno concreto, ovvero la volontà di sbarazzarsi della Calcestruzzi Belice perché qualcuno potesse accaparrarsi i loro appalti e le loro cave?”. Riccardo Polizzi, presidente del cda della Calcestruzzi spiega ai commissari: “Ho interloquito con l’Eni con diverse mail dove precisavo che eravamo impossibilitati per legge a pagare un debito precedente l’amministrazione giudiziaria. Ho spiegato che dovevano fare una procedura, il cosiddetto incidente di esecuzione presso il Tribunale, per veder riconosciuta la loro buona fede; è una procedura prevista dalla legge per pagare i debiti precedenti al sequestro. Ora, l’Eni, non so perché, se per ignoranza, non curanza o imperizia, è andata avanti come un treno facendo l’istanza di fallimento…”. Ma non è questo che sorprende Polizzi: “La cosa che più suona strano in questa vicenda non è tanto l’istanza di fallimento dell’Eni – continua Polizzi – è che il Tribunale di Sciacca abbia proclamato il fallimento e abbia bloccato l’attività della Calcestruzzi Belice. Per fortuna poi la Corte d’appello di Palermo ha revocato il fallimento, tra l’altro condannando anche l’Eni al pagamento delle spese legali. Io non so perché l’Eni abbia voluto insistere sull’istanza di fallimento però ha avuto la complicità, tra virgolette, del Tribunale di Sciacca che ha emesso una sentenza, mi permetto di dire, scandalosa”.

“Il muro di gomma” – Di sicuro è un contesto come quello siciliano che ha portato a questi risultati: “Delle 459 imprese per cui è stato portato a compimento l’iter gestorio, solo 11 non sono state destinate alla liquidazione. Una sorte altrettanto infausta è destinata anche alle aziende attualmente in gestione, delle quali solo 39 su un totale di 780 risultano essere attive”. Questi sono i numeri che vengono fuori dagli ultimi 8 mesi d’inchiesta della commissione siciliana. I numeri e le storie restituiscono una realtà amara che porta il prefetto Sudano a leggerci una lotta dello Stato contro se stesso. Mentre Angelo Bonomo parla di “muro di gomma”: Bonomo è amministratore di La.Ra., una società di Motta Sant’Anastasia operante nel settore meccanico, il cui principale committente era la base Usa di Sigonella: sequestrata nel 1997 e confiscata nel 2000 a Carmelo La Mastra, ritenuto vicino al clan Santapaola-Ercolano, società adesso fallita. E Bonomo riporta ai commissari: “Nel momento in cui io mi recavo all’Anas a chiedere una mano, non mi veniva detto: “No, dottor Bonomo”. Il problema di fondo è che nessuno ti dice di “no”, ma fanno in maniera tale da farti scontrare contro una sorta di muro di gomma e alla fine non ti danno lavoro, anche se magari uno sa che il lavoro c’è”. Per Bonomo sono i “Diremo, faremo, non si preoccupi, ritorni, ripassi…” a decretare la fine delle società confiscate. Così l’Antimafia siciliana scrive: “Il destino delle aziende tolte ai mafiosi è legato in minima parte all’efficacia delle norme di legge e in massima parte alle capacità e alla determinazione di chi è chiamato ad applicarle. Se quelle capacità e quella determinazione mancano, non ci sarà codice antimafia in condizione di salvare l’azienda e i suoi posti di lavoro”.

L’azienda di Virga e quel trasferimento di Sudano – Un altro caso emblematico è quello della Calcestruzzi Ericina, che negli anni ’90 è attiva a Trapani nel settore dei materiali di costruzione e della produzione di calcestruzzo. Nel 1994 l’azienda viene sequestrata, ma “abbiamo accertato che fino al 1999 i figli del capomandamento, cioè i figli del boss mafioso (Virga, ndr), anche loro arrestati e poi condannati, erano presenti tutti i giorni nell’impianto, decidevano il prezzo da fare ai vari imprenditori, quindi l’imprenditore che andava a comprare il calcestruzzo non trovava lo Stato ma trovava il boss mafioso o suo figlio e doveva contrattare il prezzo con loro”, così riporta il sostituto procuratore presso la procura di Trapani, Andrea Tarondo. Poi nel 200 la confisca. E a quel punto “c’è stato un vero e proprio boicottaggio ed un calo delle commesse, tanto che poi abbiamo rischiato il fallimento. Lo scopo era quello di farci fallire per riacquistarci a pochi soldi e lì entra il merito dell’azione del Prefetto Sodano…” così racconta l’ingegnere Gisella Mammo Zagarella, amministratore delegato della cooperativa Calcestruzzi Ericina Libera.

Ad evitare il fallimento è stato proprio Sudano (scomparso nel 2014), che “ha pagato duramente l’impegno a fianco della Calcestruzzi Ericina sul cui destino s’erano scatenati gli appetiti di Cosa Nostra”. Nel 2003, come detto, il prefetto venne bruscamente allontanato da Trapani e trasferito ad Agrigento. E “nella determina del Viminale, la Procura di Trapani riconobbe il risultato delle forti e illecite pressioni esercitate dall’allora sottosegretario all’Interno, il trapanese Tonino D’Alì, che in un’occasione apostrofò il prefetto definendolo un “favoreggiatore” di beni confiscati. Oggi il senatore D’Alì è a processo per concorso in associazione mafiosa”. Nonostante il trasferimento, però, a favore dell’azienda confiscata intervenne l’azione congiunta di Luigi Ciotti e di Libera che, insieme ai lavoratori, coinvolsero Legacoop, Legambiente e Anpar (l’Associazione Nazionale Produttori di Aggregati Riciclati) che portò alla fondazione, nel 2010, dell’attuale cooperativa Calcestruzzi Ericina Libera, interamente costituita dai dipendenti della vecchia azienda confiscata.

A questo punto la domanda è d’obbligo: “Cosa fare per non collezionare ancora convulsioni burocratiche, sofferenze economiche ed incomprensioni istituzionali?”, si chiede la Commissione presieduta da Fava. Una proposta la avanza Carlo Borgomeo, di Fondazione per il sud: serve “l’Agenzia come ente pubblico economico con tutte le competenze necessarie e con contratti di lavoro di diritto privato, perché a noi pare indispensabile che ci siano le competenze necessarie e che la generosità dei funzionari dell’Agenzia non basta. L’altra nostra proposta è che le risorse del Fug (il Fondo Unico per la Giustizia, ndr) siano destinate in parte ai beni confiscati”: Otto mesi di lavoro che non “lasciano dubbi” alla commissione: “La disciplina sul sequestro e la confisca dei beni alle mafie pretende, subito, un investimento di volontà politica e di determinazione istituzionale che fino ad ora non c’è stato” ed è “miope e incomprensibile non aver lavorato, in questi anni, per costruire un autentico circuito della legalità, che è cosa assai diversi dai “protocolli” dell’era Montante”.

*Articolo aggiornato da redazione online alle ore 18 e 40 del 16 febbraio 2021

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