L’agenda rossa in un fermo immagine

E se rimangono irrisolte molteplici domande legate al depistaggio e alle modalità con cui venne messa in scena la strage, sconosciuta è la fine di uno dei principali pezzi mancanti di questa storia: che fine ha fatto l’Agenda rossa che Borsellino portava sempre con sé fino all’ultimo? “Il giorno della sua morte, vidi mio padre mettere nella borsa, tra le altre cose, un’agenda rossa da cui non si separava mai”, ha detto Lucia Borsellino in aula, rievocando quel pomeriggio del 19 luglio 1992, quando il magistrato – dopo pranzo – si spostò da Villagrazia di Carini a Palermo per andare a prendere la madre e portarla dal medico. “Non so perché la usasse – ha aggiunto – o cosa ci fosse scritto perché non ero solita chiedergli del suo lavoro”. Secondo le varie ricostruzioni, il magistrato uscendo di casa inserì nella sua borsa un’agenda marrone (che utilizzava come rubrica telefonica), il costume da bagno, le chiavi di casa e le sigarette, oltre appunto all’agenda rossa dei carabinieri, che utilizzava come diario di lavoro. “Tre mesi dopo la strage – ha spiegato sempre Lucia – la borsa ci venne riconsegnata dal questore Arnaldo La Barbera, ma mancava l’agenda rossa. Mi lamentai subito della mancanza di quell’agenda rossa. Ho avuto una reazione scomposta e La Barbera, rivolgendosi a mia madre, le disse che probabilmente avevo bisogno di un supporto psicologico perché era particolarmente provata. Mi fu detto che deliravo”.

Sulla scomparsa del diario di Borsellino è già stato celebrato a Caltanissetta un processo (concluso con l’assoluzione) a Giovanni Arcangioli, il carabiniere immortalato pochi attimi dopo la strage mentre si muove da via d’Amelio con in mano la borsa del giudice. I filmati dell’epoca mostrano Arcangioli che si dirige lontano da via d’Amelio e cioè verso via Autonomia Siciliana con la borsa in mano. Poco dopo, però la valigia ricompare poi nei pressi dell’automobile di Borsellino. In venticinque anni di inchieste, in pratica, non si è riuscito a stabilire nemmeno l’esatto percorso fatto dalla borsa, passata da più mani, anche a causa di decine di testimonianze che entrano in contraddizione tra loro (come quelle del magistrato Giuseppe Ayala, che ha fornito quattro versioni differenti sul tema). Mistero anche sulle parole di Franca Castellese, la madre del piccolo Giuseppe Di Matteo, il bambino rapito e sciolto nell’acido. La donna è stata ascoltata durante il processo Borsellino Quater per spiegare il contenuto di un’intercettazione del 14 dicembre del 1993. Poche settimane dopo il rapimento del figlio, Castellese è nei locali della Dia per incontrare il marito, Mario Santo Di Matteo, mafioso che si  era appena pentito. “Qualcuno che è infiltrato nella mafia. Tu devi pensare alla strage Borsellino, a Borsellino c’è stato qualcuno infiltrato che ha preso…”, dice quel giorno incontrando il marito. Interrogata sul punto, però, oggi ha negato di ricordare quella conversazione. Dalla quale si evince chiaramente come la donna – in quel momento terrorizzata dal rapimento del figlio – dia per scontata praticamente dal nulla la presenza di soggetti infiltrati a Cosa nostra nella strage di via d’Amelio. Personaggi che avrebbero preso qualcosa. Se fosse o meno l’agenda non è ovviamente dato sapere. 

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