È morto Francesco Geraci, ex fedelissimo di Matteo Messina Denaro e poi collaboratore di giustizia. Gioielliere di Castelvetrano, Geraci è morto in una clinica di Milano, dove stava cercando di curarsi per un tumore al colon, la stessa patologia dell’ex latitante, arrestato poche settimane fa. A dare la notizia della morte di Geraci, che aveva 59 anni, è stato il Corriere.it. Dopo l’arresto e la decisione di diventare un collaboratore di giustizia, Geraci ha rivelato agli investigatori particolari e retroscena della stagione delle stragi. Anche se non formalmente affiliato a Cosa nostra, infatti, il gioielliere è tra gli uomini scenti per partecipare alla missione romana voluta da Totò Riina per eliminare Giovanni Falcone. Alla fine di febbraio del 1992, un gruppo di killer guidati da Messina Denaro e Giuseppe Graviano arrivano nella capitale con l’obiettivo di assassinare il magistrato, nemico numero uno di Cosa nostra. “C’era una lista di persona da uccidere – ha detto Geraci – Cercavamo anche Falcone che andava al Ministero. Avevamo compiti differenti io e Vincenzo Sinacori”, ha detto Geraci, citando un altro storico fedelissimo del boss di Castelvetrano.

“Andammo a Palermo, con Matteo Messina Denaro, a una riunione, alla quale non mi fecero prendere parte, credo perché non contavo niente. C’erano Matteo Messina Denaro, Renzo Tinnirello, i fratelli Graviano, Enzo Sinacori, Salvatore Biondo, e lì si è deciso che si doveva andare a Roma. Nella Capitale eravamo io Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano, Renzo Tinnirello, Enzo Sinacori, e un’altra persona. Mi portarono a Roma perché avevo la carta di credito. E lì presi una macchina a noleggio”. A un certo punto, però, la missione romana viene annullata: Riina ordina ai suoi di tornare in Sicilia. Alcune settimane dopo, Messina Denaro dirà a Geraci di non andare a Palermo. Il gioielliere racconterà di essere contrariato: “Ma come non andare? Io devo andarci ogni giorno per lavoro”. Il boss, però, aveva una soluzione: “E allora esci ad Alcamo o a Partinico e fai la strada vecchia”. L’importante era non prendere l’autostrada. Il 23 maggio, quando salta in aria l’autostrada a Capaci, uccidendo Falcone, il tornerà dal suo braccio destro con un mezzo sorrisino stampato in faccia: “Adesso puoi andare a Palermo”. Un racconto, quello del pentito, che è stato fondamentale nel processo a Messina Denaro per le stragi di Capaci e via d’Amelio, ancora in corso in Appello a Caltanissetta.

Titolare di una gioielleria, è a Geraci che Riina affida il tesoro della sua famiglia: gioielli, lingotti, preziosi, crocifissi tempestati di diamanti e persino delle medagliette commemorative dei mondiali Italia ’90 tempestate di brillanti. Una collezione che sarà scoperta grazie alle dichiarazioni del pentito, in una cassetta sotto il pavimento di una casa di Castelvetrano: il tesoro dei Riina, valutato circa due miliardi, sarà poi sequestrata. Geraci viene citato anche durante il processo ad Antonio D’Alì, ex senatore di Forza Italia ed ex sottosegretario agli Interni. Secondo l’accusa un terreno di proprietà del politico, in contrada Zangara a Castelvetrano venne venduto proprio a Geraci, che però agiva da prestanome di Messina Denaro. Quella vendita sarebbe servita per favorire la mafia a riciclare 300 milioni delle vecchie lire. Per questi fatti D’Alì era stato prescritto dall’accusa di concorso esterno, perchè si sono verificati prima del 1994. Mentre era stato assolto per le vicende contestate dall’accusa negli anni successivi. Una sentenza annullata dalla Cassazione nel 2018, mentre nel 2021 il secondo processo d’Appello era finito con una condanna a 6 anni. Decisione poi confermata dalla Suprema corte il 13 dicembre scorso: D’Alì si è subito costituto. Trentadue giorni dopo è toccato a Messina Denaro finire nella rete.

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