Se Matteo è stato latitante così a lungo, forse, il merito non è solo all’efficiente rete di protezione di Cosa nostra, capace da sempre di nascondere i suoi capi per periodi di tempo molto lunghi. Questa è una storia di mafia e come in tutte le storie di mafia lo Stato ha spesso una parte delle responsabilità. A volte sono dolose, molto più spesso sono frutto del caso, della disorganizzazione, dell’inefficienza tipica della burocrazia istituzionale. Anni fa polizia e carabinieri si trovarono a seguire nello stesso momento la sorella di Matteo, senza saperlo: tra agenti e militari in incognito si rischiò quasi uno scontro a fuoco. Nel 2012 la pm Principato era convinta di avere trovato una traccia: in provincia di Agrigento c’era un mafioso, che sembrava essere in contatto col superlatitante. Principato chiese di ritardarne l’arresto, ma la procura di Palermo disse di no: il mafioso venne preso e quella traccia che poteva portare a Matteo svanì nel nulla. La vicenda creò una profonda spaccatura all’interno della procura di Palermo: esposti e veleni finiti al Csm. Tutto archiviato. Senza colpevoli è finita pura un’altra indagine: quella sulla scomparsa di alcuni supporti informatici custoditi nella stanza della pm Principato. Che cosa contenevano? In due pen drive e un computer portatile c’era copia degli atti relativi a tutte le indagini sulla latitanza di Messina Denaro. Compreso un file excel in cui erano riportate tutte le utenze telefoniche dei presunti favoreggiatori, compresi alcuni insospettabili, intercettati dal 1993 in poi. In mano a chi sono finiti quei preziosi documenti? Impossibile saperlo. Nel gennaio scorso, infatti, l’indagine su quella sparizione è stata archiviata.

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