Piste abbandonate senza motivo, indagini della polizia entrate in contrasto con quelle dei carabinieri, investigatori che più di altri sembrano essersi avvicinati all’obiettivo, ma che poi sono stati puniti, trasferiti o demansionati: sono tanti piccoli episodi che ogni volta hanno allungato la libertà del fantasma di Castelvetrano. Questa, però, non è solo una vicenda di guardie che cercano i ladri, di investigatori che cacciano i latitanti, di uomini delle istituzioni che fanno la guerra alla mafia. Quella di Messina Denaro è soprattuto una storia di legami, di patti sotterranei, di segreti. Raccontano i pentiti che la zona all’estremo occidente dell’isola è “il punto di incontro tra i Paesi arabi, l’America e diverse componenti che girano attorno alla mafia, per esempio la massoneria e i servizi segreti”. È a Trapani che ancora oggi esistono 19 logge massoniche ufficiali, sei delle quali hanno sede a Castelvetrano. È a Trapani, e non nella più famosa Palermo, che nel 1984 viene girata La Piovra, con la maiuscola, cioè la seguitissima fiction sulla mafia: il set è montato una zona di guerra, solo che nessuno se ne accorge. Nel 1983 ammazzano a Trapani il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto. Qualche mese dopo doveva toccare a un altro magistrato, Carlo Palermo: l’autobomba piazzata a Pizzolungo manca l’obiettivo, ma uccide una madre che stava accompagnando a scuola i due figli di sei anni. Poi tocca a Mauro Rostagno, sociologo e giornalista che sembrava aver capito molto dei complessi ingranaggi della zona. Da dove provengono pure i cugini Salvo, ricchissimi esattori e uomini d’onore di Salemi, in grado di orientare per decenni la politica della Dc sull’isola. Poco distante c’è il luogo di nascita della piovra, quella vera. “Cosa nostra non è a Palermo, ma è nata ad Alcamo e a Castellammare del Golfo”, spiegò Borsellino alla commissione Antimafia nel 1987. Sono negli anni in cui i padrini si occupano soprattutto di una cosa: il traffico di droga. In quel periodo è proprio ad Alcamo che viene scoperta la più grande raffineria d’Europa. Lì, al confine con la provincia di Palermo, i capi storici sono i Rimi, imparentati con don Tano Badalamenti, legato a doppio filo con i mafiosi degli Stati Uniti. D’altra parte in America i boss sono quasi tutti d’origine trapanese: vengono soprattutto da Castellammare, una piccola città che ha dato il suo nome alla più importante guerra di mafia combattuta negli States negli anni ’30. Prima che i corleonesi prendessero il potere a colpi di kalashnikov, il capomafia della provincia di Trapani era proprio uno di Castellammare. Poi, nei primi anni ’80, sarà costretto a cedere lo scettro a Francesco Messina Denaro, il padre di Matteo. Don Ciccio non è un mafioso di secondo piano: tutt’altro. Riina lo considerava il “ministro degli Esteri” di Cosa nostra perché teneva i rapporti con una serie di Paesi del Mediterraneo. In più è un esperto di opere d’arte: già nel 1962 aveva dato ordine di rubare l’Efebo di Selinunte e aveva importanti contatti con alcuni intermediari in Svizzera. Una passione, quella per l’arte, che trasferirà al figlio Matteo, condannato, tra le altre cose, anche per gli attentati al patrimonio artistico del Paese. Don Ciccio riuscirà nell’impresa di morire da latitante: il suo corpo, vestito di tutto punto e pronto per il funerale, venne fatto ritrovare in aperta campagna con una telefonata anonima. Per coprire il cadavere del marito, la moglie si presentò con un cappotto di astrakan. Era il 30 novembre del 1998: a partire da quel giorno e per tutti i venti anniversari successivi il patriarca sarà ricordato con un necrologio pubblicato a pagamento sulle pagine del Giornale di Sicilia.

DON CICCIO, IL PATRIARCA

E dire che fino ai primi anni ’90, don Ciccio era stato quasi ignorato dalla giustizia. Quando si parla di mafia, lo Stato sconta sempre lo stesso peccato originale: la sottovalutazione. Una continua e costante sottovalutazione. Anche con i Messina Denaro è andata così: vale sia per il padre che per il figlio. Nel 1990 è Borsellino, in quel momento procuratore capo di Marsala, a chiedere la sorveglianza speciale, il divieto di dimora e il sequestro di tutti i beni per Messina Denaro senior. In quella richiesta Borsellino segnala i rapporti tra il patriarca di Castelvetrano e Vito Guarrasi, l’avvocato dei misteri, uno che aveva cominciato al sua carriera nel 1943, a Cassibile, quando è tra gli ufficiali che assiston alla firma dell’armistizio con gli Stati Uniti. Lontano parente di Enrico Cuccia, per mezzo secolo Guarrasi è stato indicato come la mente occulta degli affari politici ed economici siciliani. Coinvolto nelle indagini sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, l’avvocato non fu mai processato: poco prima della morte fu chiamato persino a testimoniare al processo a Giulio Andreotti. È con questo tipo di personaggi che potevano vantare legami i Messina Denaro. Ma non solo: in quelle vecchie carte Borsellino racconta anche che una delle figlie del boss di Castelvetrano, Rosalia, ha sposato Filippo Guttadauro, un giovane di Brancaccio che fa parte di una famiglia conosciuta: suo fratello Giuseppe era stato pure imputato al maxiprocesso e in futuro sarà coinvolto anche nell’inchiesta su Totò Cuffaro, il governatore della Sicilia condannato per favoreggiamento. Questi elementi, però, al tribunale di Trapani non bastano. Per il vecchio Messina Denaro viene emesso un decreto di non luogo a procedere, in cui si legge – tra le altre cose – che gli “elementi forniti sono incontrollabili” mentre sulla “trasparente personalità” di Guttadauro “non si solleva alcuna ombra di dubbio se non purtroppo, che è fratello di tale Guttadauro Giuseppe, ex diffidato e sorvegliato speciale, indiziato di mafia”.

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