Libero Grassi non si dava pace: come poteva non essere un reato pagare il pizzo ai mafiosi? Forse è davvero una storia di “altri tempi” quella di Libero Grassi, una vita forgiata nell’antifascismo militante, fin dal nome: un omaggio a Giacomo Matteotti. Una vita dedicata alla libertà, cioè alla dignità, come imprenditore e come politico, perché Libero Grassi non si occupò soltanto dei fatti suoi, ma si occupò dei fatti di tutti attraverso l’impegno pubblico. Libero Grassi infatti attraversò la storia del partito d’Azione, del partito Radicale e del partito Repubblicano, coerente sempre a quella idea di libertà della persona che si coniuga con la responsabilità sociale e politica, allergico quindi a tutto ciò che la offende in nome di una presunta buona ragione, tanto ai fascisti quanto ai mafiosi.

Venne assassinato da Cosa Nostra il 29 agosto del 1991, perché Cosa Nostra non poteva permettere che l’esempio di Libero Grassi ispirasse altri imprenditori. Era la fine del 1991, il maxiprocesso sarebbe arrivato in Cassazione di lì a pochi mesi, il 30 gennaio del 1992, ponendo fine al mito della impunibilità di Cosa Nostra e la mafia siciliana viveva di sussulti e travagli violenti, quelli della fine di un’epoca, combattuta tra la ricerca di un basso profilo (non ci sarebbero dovuti essere morti ammazzati a Palermo durante la celebrazione del maxi) e l’istinto a piantare ancora le unghie nella carne viva per fare paura e ribadire l’antico dominio: nell’agosto del 1991 venne anche assassinato il giudice Scopelliti.

Libero Grassi venne ucciso in quella cesura temporale, tra il “già” e il “non ancora”, come quei partigiani che vennero ammazzati dai fascisti ad un passo dal 25 aprile. Libero Grassi, uomo del tempo nuovo, si ribellò ad una Cosa Nostra che ragionevolmente faceva ancora paura, quella della mattanza degli anni ’80, eppure già allora si meravigliava che non fosse reato pagare il pizzo per paura. La “paura” vera, avrà pensato, è quando non puoi nemmeno rivolgerti alla Polizia, perché è il braccio armato di un regime autoritario, ma se puoi rivolgerti alla polizia perché è forza dell’ordine repubblicano e democratico allora non c’è scusa che tenga. Chissà che ne avrà pensato Berlusconi, che avrà pur letto della morte di Libero Grassi, lui che invece pagava da anni Cosa Nostra temendone la violenza e per stare tranquillo Cosa Nostra se l’era proprio messa in casa… Ma se allora pagare il pizzo per paura non era reato, ha senso che continui a non esserlo oggi?

Oggi che gli strumenti per denunciare ci sono tutti e che la forza di intimidazione delle mafie, almeno di Cosa Nostra, non è più quella degli anni ’80 del secolo scorso, chi paga può ancora essere giustificato dalla paura? Quanta soggezione c’è in chi paga e quanta connivenza? Quanti imprenditori oggi, pagando e tacendo, non cercano piuttosto un rapporto di convenienza con i mafiosi? Convenienza che magari poi si traduce nel “recupero crediti”, nella neutralizzazione della concorrenza, nell’intimidazione di qualche lavoratore pretenzioso, nell’accesso ad una liquidità negata dal sistema creditizio legale. E se forse sarebbe ancora eccessivo considerare favoreggiamento e quindi reato ogni pagamento, bisognerà davvero stringere le viti della severità nel giudicare caso per caso. D’altra parte però è necessario che lo Stato si chieda se gli strumenti messi a disposizione delle vittime di estorsione funzionino bene o se certe lungaggini e certi formalismi, ingiustificabili perché incapaci di cogliere l’evoluzione del fenomeno, non finiscano col costituire potenti alleati per quel che resta di questa mafia avida e meschina.

Ma Libero Grassi, antifascista e liberale, resta maestro anche per un altro motivo, così attuale: la serietà dell’uso della parola. La “parola”: questa cosa così essenzialmente umana, capace di trasformare la realtà fino a rivoluzionaria o di finire tra gli arnesi grotteschi del mero intrattenimento. La differenza la fa la credibilità di chi la pronuncia, una credibilità che si misura nella coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa, la parola che diventa suggello pubblico, impegnativo del proprio pensiero. Questo fu la lettera aperta che Libero Grassi scrisse all’ignoto estortore e che fece pubblicare su Il Giornale di Sicilia nel gennaio del 1991: lo mise nero su bianco e su un giornale che alla mafia non avrebbe dato una lira e che avrebbe collaborato con la polizia. Lo scrisse, lo fece, ne pagò il prezzo. Restò libero.

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