Io li capisco i figli di Paolo Borsellino che oggi esibiscono il loro silenzio e tacciono. Trenta anni dopo la bomba in via d’Amelio, 19 luglio 1992.

Tacciono perché il tempo è passato, i presunti reati di chi ha contribuito a intralciare i processi sulla strage si estinguono per prescrizione, la memoria collettiva è corta e anche loro, figli di quella vittima della mafia che ha fatto la Storia recente d’Italia, non hanno verità. Tacciono perché denunciano la non-giustizia di tre decenni, i depistaggi su quella strage avvenuti e tuttavia prescritti. Perché, certo, i processi e le garanzie hanno bisogno di tempi certi. Ma da qui inizia, al di là delle indagini, il paradosso di un servitore dello Stato lasciato a lungo solo dallo Stato, anche dopo la morte. Lasciato solo in vita con la sua competenza investigativa e diventato “eroe” per la retorica collettiva (anche dei suoi detrattori da vivo) dopo che la mafia ne ha fatto pubblica strage.

Le stragi del 1992 che misero in ginocchio l’Italia maturarono negli anni 80, anni bui in Italia, iniziati con le stragi di Ustica e poi nella stazione di Bologna. Chi oggi ha meno di trenta anni non ne ha ricordo nitido e potrebbe ignorare, perché a scuola questa Storia non si insegna.

Forse anche per la non conoscenza diffusa di quel clima, questa Storia si ripete, ciclicamente e sotto traccia.

Nella discussione attuale sulla giustizia, che dovrebbe essere un diritto uguale per tutti, si dimentica ad esempio che i magistrati, nel 1992 ma anche prima e dopo, non sono tutti Borsellino o Falcone e non sono tutti nemmeno Palamara. Solo che, a secondo di quel che serve all’eterno dibattito di giornata, tutte le toghe diventano o eroi o malandrini. Ma per essere chiari e non retorici, la maggior parte di loro non erano allora e non sono oggi Borsellino. E certamente molti di loro disprezzano chi non fa il suo dovere d’ufficio.

Alcuni ragazzi, giovani uomini e donne di oggi, forse sanno con precisione chi furono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

In ogni caso, provo a raccontare poche cose che ho capito, da ex giovane cronista, e visto con i miei occhi.

Per esempio, all’inizio dell’estate 1988. Lavoravo per il quotidiano il manifesto ma un giorno ero a Marsala per fare una intervista per il settimanale Avvenimenti. La stanza in cui lavorava allora il dottore Borsellino era spoglia, dentro una ex scuola o una ex caserma. Allora a Marsala un vero tribunale (come è accaduto invece dopo la sua morte) non c’era.

La situazione era questa. Da alcuni mesi era stata pronunciata la sentenza di condanna del primo grado del maxi processo ai boss della mafia siciliana di fede corleonese. Borsellino, con Falcone e gli altri magistrati del pool (Di Lello e Guarnotta) di Palermo avevano fatto quell’inchiesta, cercando le prove, per la prima volta nella storia giudiziaria italiana, sulla mafia che esiste. Prima di loro i processi finivano tutti con boss e collusi assolti per insufficienza di prove.

In quegli anni sui giornali (con poche eccezioni) quel gruppo di magistrati veniva descritto come “giudici sceriffi” (titolo del Giornale di Sicilia dell’epoca) che con quel loro maxi processo attentavano – così dicevano all’epoca molti opinionisti – al “buon nome della Sicilia e della sua economia”. Mentre tanti loro colleghi siciliani e italiani non applicavano la legge, loro sì lo facevano per la prima volta nella storia della giustizia in Italia.

Da soli con il loro intuito e senso del dovere.

Negli anni precedenti al maxi processo istruito da Borsellino e Falcone, ad esempio nella mia città, il procuratore di Catania dell’epoca retrodatava a penna i certificati penali dei grandi imprenditori collusi con la mafia per permettere a quelle imprese di non avere precedenti penali e vincere appalti pubblici. E in quegli anni, sempre a Catania, il capo della squadra mobile andava a caccia con il boss mafioso della città. Procuratore e poliziotto entrambi costretti poi per questo loro comportamento poco “istituzionale” l’uno ad andare anticipatamente in pensione (per evitare di essere punito dal Csm) e l’altro trasferito alla polizia postale per evitare lo scandalo.

Questa era la Sicilia, prima degli anni 80, nella quale Borsellino e Falcone facevano invece il loro semplice lavoro.

Dopo la prima sentenza del maxi processo e in quel contesto difficile, ecco Borsellino procuratore a Marsala, l’eterna Dunhill fumante sulle labbra. Solo con la sua scorta e con un gruppetto di magistrati ragazzini, perché a Marsala – terra di mafia antica e di boss latitanti – non ci voleva andare nessuno. Il suo collega Falcone, in quel 1988 era stato appena escluso dalla carica di capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Gli era stato preferito un vecchio magistrato di nome Meli che veniva dal civile: appena eletto, aveva smantellato il metodo creato da Rocco Chinnici (fondatore del pool antimafia e ucciso con autobomba nell’82) che riunificava in un unico gruppo di lavoro le inchieste sulla mafia. Risultato: separa i processi sullo stesso, solidissimo sistema criminale, così non riuscirai mai a fare giustizia e a capirci nulla.

Eccoli, entrambi, Falcone e Borsellino meno di quattro anni prima della loro morte “annunciata” per solitudine, il primo a Palermo a passare carte sui processi su scippi e rapine; il secondo, seduto davanti a me, a spiegarmi la sua giornata e farmi vedere la montagna di fascicoli da smaltire su assegni a vuoto e furti in appartamento a Marsala.

E non sembri irrispettoso fare notare che per spiegare cosa accadeva trenta anni fa, più ancora di oggi, non c’è bisogno di citare irrispettosamente Johnny Stecchino visto che scippi, furti in appartamento, rapine e assegni a vuoto non erano allora (e non sono oggi) i problemi giudiziari più urgenti di Palermo e della Sicilia, in Italia.

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