A Palermo, al numero 11 di via Zandonai, c’è una grande insegna gialla. Sopra c’è scritto “Paolo, coiffeur per uomo. È la bottega del barbiere Paolo Biondo ed è lì che andava a farsi tagliare i capelli Paolo Borsellino. Ci va anche il pomeriggio del 23 maggio 1992. E’ un sabato e quel giorno il salone è molto affollato: il magistrato aspetta pazientemente il suo turno, poi si siede e si affida alle cure del suo barbiere. Quando il taglio è quasi finito a Borsellino squilla il cellulare. “L’ho visto alzare dalla poltrona di lavoro e sbiancare in viso”, ricorda oggi Biondo. “Mi sono preoccupato, ho chiesto cosa fosse successo e lui mi fa: levami la toglia e fammi scappare’. Ho fatto come diceva e gliel’ho ripetuto: dottore, ma che cos’è successo? Lui mi rispose: hanno fatto un un attentato a Giovanni“. Si aprono così le nuove puntate di Mattanza, il podcast sulle stragi del ’92 prodotto dal Fatto Quotidiano. Vengono pubblicati oggi, infatti, altri due episodi, che aprono il secondo blocco della serie, quello che racconta delle vicende relative alla strage di via d’Amelio: tutte le puntate sono disponibili gratuitamente su ilfattoquotidiano.it, su Spotify, Apple podcast e Amazon music. Le nuove puntate contengono interviste esclusive e testimonianze inedite di investigatori e testimoni, sopravvissuti e killer. Si può ascoltare il racconto di Antonio Vullo, l’unico poliziotto della scorta di Borsellino che è rimasto in vita. Ma anche la storia di Gaetano Murana, condannato ingiustamente per la strage di via d’Amelio.

“Devo fare in fretta” – La quinta puntata parte proprio da quel 23 maggio, vissuto dal punto di vista di Borsellino. “Quando vedo le interviste che gli sono state fatte dopo la strage di Capaci, mio fratello mi sembra un’altra persona, sembra che gli sia cambiato anche il colore degli occhi“, racconta Salvatore Borsellino. Chi lo ha conosciuto, infatti, ricorda che dopo l’omicidio di Falcone Borsellino cambia completamente: sorride pochissimo, è sempre più cupo, sembra persino invecchiato. E non solo perché il suo amico magistrato muore letteralmente tra le sue braccia in ospedale. “Mio fratello – continua Salvatore Borsellino – continuava dire ossessivamente: devo fare in fretta, devo fare in fretta, devo fare in fretta”. Se Falcone aveva sempre lavorato mettendo in conto la possibilità che lo avrebbero ammazzato, dopo la strage di Capaci per Borsellino quella è una certezza. L’ex collega Giuseppe Ayala, che nel frattempo era stato eletto in Parlamento coi Repubblicani, una volta gli consiglia di prendersi un momento di riposo: “Gli dico: senti Paolo, tu lavori dalla mattina alla sera, lavori come un pazzo, datti una calmata, è un momento particolare per tutti noi. E lui mi rispose: Hai ragione, però io non posso rallentare, perché mi resta poco tempo“. A Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo che all’epoca era un giovane magistrato, dice una cosa molto simile: “A me e ad altri giovani sostituti disse che eravamo giovani e che avevamo diritto a vivere a lungo e che quindi se volevamo fare un passo indietro in quel momento, lui ci avrebbe capito. Ma la sua sorte era segnata”.

“Un osso davanti ai cani” – Ma perché Borsellino in quei giorni di giugno e luglio del 1992 è praticamente sicuro di essere un condannato a morte? Trent’anni dopo non abbiamo ancora una risposta. Per provare a trovarla, Mattanza ricostruisce tutto quello che ha fatto Borsellino dopo la morte di Falcone. La puntata si intitola Un osso davanti ai cani, come la frase pronunciata dal giudice dopo che – cinque giorni dopo Capaci – l’allora ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti, lo candidò pubblicamente a procuratore nazionale Antimafia, senza però avvertirlo prima. “Hanno messo l’osso davanti ai cani”, dice Borsellino, che capisce in un attimo come il sistema stia già cominciando a stritolarlo. Proprio come aveva fatto con Falcone. Ed è sulla morte di Falcone che stava lavorando Borsellino. “In quei giorni mio fratello indaga disperatamente sulla strage di Capaci, perché sa che ha poco tempo per farlo”, ricorda sempre Salvatore Borsellino. “In quel periodo ha un solo interesse, quello di scoprire cosa c’è dietro la strage di Capaci. E quando lui sente i collaboratori di giustizia, la prima domanda che fa è questa, lui chiede subito delle stragi. Questo dimostra come in realtà Borsellino stesse facendo un’indagine parallela a quella della procura di Caltanissetta, perché lui aveva gli strumenti per farla, la procura di Caltanissetta in realtà non aveva questi strumenti”, spiega invece Scarpinato. Formalmente a indagaresulla strage di Capaci tocca infatti alla procura di Caltanissetta, che però all’epoca aveva pochi magistrati e tutti poco esperti su questioni di mafia. E’ per questo motivo che ancora oggi hanno un valore enorme le parole pronunciate da Borsellino il 25 giugno del 1992, in quello che è il suo ultimo discorso pubblico, a Casa Professa, la biblioteca comunale di Palermo. “In questo momento – dice durante il suo intervento – oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto tante sue confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, devo per prima cosa riassemblarli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili”. Da giorni Borsellino diceva di voler essere essere ascoltato come teste sulla strage di Capaci dalla procura di Caltanissetta. Quella volta esprime quella richiesta in pubblico e pone l’accento su quella parola, la parola “testimone“: ma testimone di cosa? Che cosa sa Borsellino sulla strage di Capaci?

Quel giorno al Viminale – Di sicuro c’è solo che è in quel periodo che comincia a interrogare pentiti importanti. Come Gaspare Mutolo, detto il barone, l’ex autista di Totò Riina che inizia a raccontare faccende delicate. Per esempio accusa Bruno Contrada di contiguità con Cosa nostra. Ex poliziotto e all’epoca numero 3 dei servizi segreti, nei mesi successivi Contrada verrà arrestato e poi nel 2007 verrà condannato a dieci anni per concorso esterno. Una condanna che verrà revocata dopo una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo: secondo i giudici di Strasburgo, l’Italia non avrebbe potuto condannare l’agente segreto per concorso esterno perché all’epoca dei fatti contestati quel reato non esisteva ancora. Lui, in ogni caso, si è sempre dichiarato innocente. L’interrogatorio di Mutolo, però, è diventato oggetto d’indagine negli ultimi anni perché è quello che Borsellino a un certo punto interrompe: ha ricevuto una chiamata e deve recarsi al Viminale. E’ l’1 luglio del 1992 e quel giorno si sta insediando il nuovo ministro dell’Interno, Nicola Mancino. Al Viminale c’è anche il capo della Polizia, Vincenzo Parisi, ma secondo Mutolo c’è pure Contrada. “Quando Borsellino torna mi racconta che, dopo aver parlato col ministro Mancino, incontra Contrada, che gli fa: Ma stai interrogando a Mutolo? Digli che io sono a disposizione se ci occorre qualche cosa”. Che Mutolo si è pentito ancora non lo sa nessuno. E l’interrogatorio con Borsellino doveva rimanere segreto. Invece al Viminale Contrada dimostra di sapere tutto. Proprio mentre Mutolo sta facendo il suo nome. Anni dopo, quel giorno al ministero diventerà non solo oggetto di indagini ma anche di polemiche: per molto tempo, infatti, Mancino sosterrà di non ricordare di aver incontrato Borsellino. Contrada, invece, ha sempre negato di essersi trovato al Viminale quel giorno.

“Un amico mi ha tradito” – E’ in quel periodo che Borsellino comincia a farsi sempre più inquieto. “Quella sera dice a sua moglie che ha visto la mafia in diretta“, ricorda Borsellino. Mentre parla con due giovani colleghi, Alessandra Camassa e Massimo Russo, scoppia in lacrime e dice: “Non posso credere, non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire”. Sono le tappe di avvicinamento al 19 luglio, un giorno che si apre con la chiamata del suo capo Pietro Giammanco, il procuratore che era già entrato in contrasto con Falcone. Alle 7 di domenica mattina Giammanco telefona a Borsellino per comunicargli che vuole assegnargli le deleghe per indagare sulla mafia a Palermo. Dopo la morte di Falcone, Borsellino è il magistrato più esperto d’Italia su cose di mafia. Eppure non può indagare nella sua città, dove Cosa nostra è più forte. Il suo capo preferisce di no. Poi il 19 luglio cambia idea e glielo fa sapere domenica di prima mattina. Perché tanta fretta? Perché non può aspettare lunedì? Questa domanda a Giammanco nessuno la farà mai perché a nessuno verrà mai in mente di interrogarlo.

I servizi che indagano su via d’Amelio – Non aver mai posto queste domande a Giammanco è solo una piccola incongruenza delle indagini sulla strage di via d’Amelio. Per esempio: perché la procura di Caltanissetta decide di affidare le indagini ai servizi segreti, violando praticamente la legge? “La stessa sera della strage la procura chiama Roma, chiede di poter avere la presenza di Bruno Contrada che è il numero tre dei servizi, per potere di fatto affidare il governo delle indagini. Ed è una decisione incredibile, perché è una violazione aperta manifesta della legge”, racconta Claudio Fava, ex presidente della comissione Antimafia siciliana. Contrada è proprio l’uomo di cui aveva parlato Mutolo e che all’epoca era già sotto inchiesta a Palermo per concorso esterno. “Siamo di fronte a questa situazione assolutamente paradossale, una sorta di ossimoro investigativo – continua Fava – la procura di Caltanissetta affida a Contrada l’indagine più importante della storia della Repubblica italiana, nello stesso tempo in cui la procura di Palermo indaga Contrada considerandolo un amico di mafiosi”. L’apporto dei servizi di Contrada sarà fondamentale per indirizzare le indagini su Vincenzo Scarantino, un balordo della Guadagna, individuato come l’organizzatore della strage. Grazie a una nota dell’intelligence, infatti, lo status criminale di Scarantino viene elevato da semplice spacciatore di sigarette di contrabbando a mafioso di rango, imparentato col potente clan dei Madonia. E’ a quel punto che parte il depistaggio.

Il più depistaggio della storia- Secondo i giudici della corte d’Assise di Caltanissetta quello di via d’Amelio rappresenta il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. Un depistaggio che matura sotto la gestione di Arnaldo La Barbera, l’allora capo della squadra mobile di Palermo che in passato aveva pure lui collaborato coi servizi: aveva persino un nome in codice, Rutilius. “Io a un certo punto inizio a rendermi conto che le indagini stavano prendendo una brutta piega quando mi accorgo che un investigatore del livello di La Barbera crede a Candura e Valenti, che sono gli uomini che poi porteranno Scarantino, due balordi completamente inaffidabili”, racconta Gioacchino Genchi, l’esperto informatico che nel ’92 indagava sui computer e sulle agende elettroniche di Giovanni Falcone. Perché La Barbera decide di depistare? Solo per chiudere il caso in fretta e fare carriera? Per rispondere a questa domanda c’è oggi in corso a Caltanissetta un processo, il quinto celebrato sulla strage di via d’Amelio: alla sbarra ci sono tre poliziotti, tutti uomini di La Barbera (che è morto per un tumore nel 2002), accusati di aver indottrinato il falso pentito Scarantino, costringendolo a mentire. Secondo Fava “il depistaggio serviva a portare verso una soluzione di comodo che dicesse: Borsellino è stato ucciso dalla mafia, per vendetta. E quindi c’è la mafia, ma c’è solo la mafia“. E in effetti quando La Barbera decide di puntare sulla pista Scarantino, tutti gli altri filoni d’indagine vengono bruciati. Compresi quelli seguiti da Genchi, che stava indagando sul traffico telefonico di Borsellino. Quando aveva chiesto le chiamate in entrata, il poliziotto aveva ricevuto un rifiuto: “Il tabulato veniva fornito col traffico in entrata e il traffico in uscita, cioè le chiamate eseguite e le chiamate ricevute. Quando mi passano gli atti per esaminarlo io mi accorgo che c’è solo il traffico in uscita e non c’è il traffico in entrata. Il traffico in entrata è il più importante, perché se io devo capire chi ha chiamato Borsellino, se è vero come è vero che Borsellino mentre interrogava Mutolo viene chiamato dal ministero per andare da Mancino che lo fa incontrare con Contrada, è la chiamata in entrata che a me mi serve. Ecco quando io chiedo questo, c’è il muro di gomma: è impossibile avere il traffico in entrata”. Che telefonate ha ricevuto Borsellino prima di morire? E perché quelle chiamate devono rimanere segrete?

L’uomo del garage e il racconto di Spatuzza – Nessuno si pone il problema perché nel frattempo Scarantino viene convinto a collaborare: si autoaccusa della strage Borsellino e fa finire nei guai anche persone completamente innocenti. Come Gaetano Murana, un suo vicino di casa che però è una persona onesta e della strage Borsellino, così come di affari di mafia, non sa nulla. “La galera si è mangiata tutta la mia gioventù, mi hanno distrutto la mia famiglia. Mio figlio è cresciuto senza padre”, racconta nella sesta puntata del podcast. L’episodio è intitolato Carne umana, come quella si trova tra i rottami di via d’Amelio subito dopo la strage. Ma anche quella di chi come Murana ha scontato 18 anni di carcere da innocente. Sarà scarcerato solo dopo la collaborazione di Gaspare Spatuzza, il pentito che nel 2008 smonterà gran parte delle bugie raccontate da Scarantino. Ma non risolverà tutti i dubbi sulla strage di via d’Amelio: anzi ne aggiungerà degli altri. I racconti di Spatuzza, infatti, si fermano al 18 luglio del ’92, cioè il giorno prima della strage: il killer di Brancaccio consegna la Fiat 126, che il suo capo Giuseppe Graviano gli aveva chiesto di rubare, in un garage vicino a via d’Amelio. E’ lì che l’auto sarà probabilmente imbottita di esplosivo: Spatuzza non lo sa con certezza perché Graviano a quel punto gli aveva ordinato di “prendersi una vacanza”. In quel garage, però, l’ex killer di Brancaccio, racconta di aver notato anche la presenza di un uomo strano. In mezzo ad alcuni mafiosi che lui conosceva bene c’era anche questo soggetto che evitava di rivolgergli la parola. Spatuzza non riesce a ricordarsi bene la faccia di quell’uomo, dice che in testa ha come “un negativo di una fotografia”. Il pentito, però, ha sempre sostenuti una cosa: “Non era una persona riconducibile a Cosa nostra“. Ma quindi non c’era solo la mafia a imbottire di esplosivo l’auto che è stata utilizzata per uccidere Borsellino?

Articolo Precedente

Basilicata, colpo al clan di Scanzano Jonico: condanne per 160 anni di carcere. Al boss Schettino, ex carabiniere, 25 anni e 6 mesi

next
Articolo Successivo

Per le mafie i social sono una vetrina eccellente: trash e ostentazione, così si mostra la malavita /2

next