Seguire la ‘traccia dei soldi’, cioè il metodo inventato da Giovanni Falcone. Nel day after delle critiche arrivate al suo governo da parte di Nicola Gratteri, il premier Mario Draghi va a Milano nella sede della Direzione investigativa antimafia per intervenire a un convegno sul ruolo della finanza nel contrasto ai clan. E visto che sono passati solo due giorni dal trentesimo anniversario della strage di Capaci – e al convegno c’è anche Maria Falcone – ne approfitta per ricordare i magistrati simbolo della lotta a Cosa nostra. “Oggi celebriamo il lavoro iniziato con il pool antimafia della Procura di Palermo, di cui facevano parte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ed è un lavoro per cui il Governo e l’Italia intera vi sono profondamente grati – così come sono grati a Falcone e Borsellino”, è una parte del discorso del capo dei governo, che ci ha tenuto a ricordare come “rispetto a trent’anni fa, la mafia ha assunto forme nuove, ma altrettanto temibili. Non viviamo più l’incubo dello stragismo, del terrorismo di stampo mafioso. Le mafie si insinuano nei consigli d’amministrazione, nelle aziende che conducono traffici illeciti – al Nord e nel Mezzogiorno. Inquinano il tessuto economico, dal settore immobiliare al commercio all’ingrosso”. Tutto vero e ampiamente condivisibile.

“Riforme Cartabia antitesti di Falcone” – Le critiche di Gratteri e quelle di Di Matteo – Arrivando a poche ore dall’attacco di Gratteri alle politiche giudiziarie del suo governo, però, l’intervento del premier ha rischiato di suonare come una sorta di replica. “Draghi è un esperto di finanza. Punto. Quando parliamo di sicurezza o di riforma della giustizia, non ci siamo proprio”, ha detto il procuratore di Catanzaro, dal palco del Maurizio Costanzo Show. “C’è un’aria di restaurazione – ha continuato Gratteri – C’è un’aria di liberi tutti. È un momento brutto per il contrasto alle mafie, alla criminalità organizzata e alla criminalità comune. È un momento in cui la magistratura è molto debole. Sono stati fatti degli errori e la magistratura non ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Quindi in questo momento c’è una sorta quasi di vendetta della politica nei confronti della magistratura dopo 30 anni”. Critiche molto simili a quelle lanciate da Nino Di Matteo. “In tanti ipocritamente vi vogliono far credere che le riforme in cantiere prima fra tutte la riforma Cartabia possano sconfiggere quel male. Non è così”, ha detto il consigliere del Csm, nel corso di un dibattito organizzato a Palermo dalla rivista Antimafia Duemila. “La riforma del sistema elettorale del Csm – ha proseguito l’ex pm antimafia – non eliminerà anzi rafforzerà il peso delle correnti all’interno del Csm. Perché la politica non ha alcun interesse a debellare un sistema del quale si nutre e trae vantaggio. E’ anche con questo sistema di controllo della magistratura che la politica è riuscita a isolare e neutralizzare magistrati troppo liberi e indipendenti e anche attraverso questo sistema che la politica riesce a valorizzare i magistrati che vengono ritenuti affidabili perché prevedibili nelle loro condotte e controllabili”. La critica di Di Matteo è indirizzata alle nuove norme dell’ordinamento giudiziario varate dal governo Draghi. “La riforma Cartabia – ha detto il giudice – riuscirà a creare una figura di magistrato che è l’esatta antitesi rispetto a quella di Giovanni Falcone. Disegneranno un magistrato burocrate attento ai numeri e alle statistiche rispetto alla qualità del suo lavoro”.

Col Maxiprocesso non si fa carriera – E in effetti se da una parte Draghi a Milano ha omaggiato “le indagini di Falcone, Borsellino“, che “svelarono in modo netto, nitido, brutale la pervasività di Cosa nostra“, dall’altra non si può non ricordare che oggi probabilmente i due giudici uccisi nelle stragi del 1992 avrebbero molte difficoltà a istruire i processi per i quali vengono ricordati. A cominciare appunto dal Maxiprocesso, un procedimento con 475 imputati che aveva come obiettivo di dimostrare per la prima volta come Cosa nostra fosse un’organizzazione unica. All’epoca l’esito del Maxi non era per nulla certo e infatti dopo le condanne in primo grado, “scontate” per circa un terzo in Appello, la conferma in Cassazione era tutt’altro che scontata. Come è noto gli ergastoli per i boss divennero definitivi soltanto grazie a un’intuizione di Falcone. Arrivato al ministero della Giustizia per dirigere gli Affari penali, il magistrato convinse l’allora guardasigilli Claudio Martelli a inserire il cosiddetto “criterio di rotazione“: i processi per mafia in Cassazione non sarebbero finiti sempre sul tavolo dello stesso giudice e cioè Corrado Carnevale, all’epoca noto per l’alto numero di condanne annullate spesso a causa di cavilli giudiziari. Le condanne del Maxi, dunque, vennero confermate dalla Suprema corte il 30 gennaio del 1992, alla vigilia della stagione stragista. Trent’anni dopo viene da chiedersi: con la riforma Cartabia si sarebbe mai fatto un processo come il Maxi? Ovviamente il paragone diretto non si può fare visto che è cambiato il codice di procedura penale e il rito processuale. Ma al di là delle questioni procedurali, è il caso di ricordare che recentemente, con le nuove norme sull’ordinamento giudiziario, è stato introdotto per i magistrati un fascicolo di valutazione. Al suo interno troveranno spazio i dati statistici sull’attività dei giudici: indagini compiute, arresti, processi vinti e persi. Chi rischierebbe la carriera puntando tutto su un unico processo, molto complesso e quindi con un alto rischio di finire con numerose assoluzioni? Chi dedicherebbe due anni di lavoro a un procedimento che rischierebbe di avere come effetto solo quello di aumentare i parametri negativi della propria valutazione professionale? Senza considerare gli altri processi istruiti da Falcone che si sono conclusi con l’assoluzione, per esempio quello al terrorista nero Giusva Fioravanti per l’omicidio di Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale capo dello Stato.

Vietato parlare di mafia in tv – Nel suo intervento alla Dia Draghi ci ha tenuto anche a sottolineare come “le norme antimafia italiane possono essere un utile punto di riferimento nella discussione attualmente in corso a livello europeo sulla confisca dei beni degli oligarchi russi”. Ma le più importanti norme antimafia italiane sono state varate solo dopo un’attività di persuasione e sensibilizzazione portata avanti dai magistrati dell’epoca sull’opinione pubblica e quindi sulla politica. Pensiamo allo stesso Falcone e alle numerose interviste rilasciate nel corso della sua carriera per spiegare la pervasività di Cosa nostra, i legami con i clan degli Stati Uniti, quelli con la politica. Informazioni che spesso provenivano dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che facevano parte di indagini in corso. E che quindi oggi, a causa della cosiddetta direttiva sulla presunzione d’innocenza del governo Draghi, Falcone non potrebbe più fare. Un esempio? Nel 1990 il giudice rilascia una lunga intervista alla Rai in cui parla di mafia, appalti e politica. “Il settore del condizionamento dei pubblici appalti è soprattutto adesso uno degli affari illeciti più lucrosi della mafia”, dice il giudice, che poi delinea il meccanismo che in quel momento regolava i rapporti tra Cosa nostra, le imprese e la politica: praticamente Falcone traccia un quadro che poi finirà nel rapporto “mafia e appalti“. Un’inchiesta che anni dopo creerà spaccature e veleni e che all’epoca era ancora in fase d’indagine: il giudice non avrebbe potuto parlarne neanche per denunciare quel meccanismo perverso che legava Cosa nostra ai colletti bianchi.

Quando Falcone parlava di mafia e politica – Ma non solo. In quell’intervista Falcone parla anche di “tutta una serie di organizzazioni finanziarie, che sono prontissime ad accogliere il denaro di natura illecita”. Il giornalista cheide: “Quindi c’è denaro sporco che va in borsa?”. Falcone risponde: “Va dovunque sia più agevole essere ripulito e dunque non comprendo perché non dovrebbe andare in borsa”. Poi il giudice parla di Vito Ciancimino (“Ci sono indagini preliminari in corso dalle quali emerge il suo ruolo perdurante nel settore dei pubblici appalti”), di “uomini politici che fanno parte a tutti gli effetti di Cosa nostra“. E ancora anticipa una novità contenuta nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia: “Da ultimo, rispetto a quello che è noto al pubblico – perché sono nuove acquisizioni – c’è quanto riferito da Marino Mannoia. Parla di ordini ricevuti per far votare un determinato partito, di contributi per sostenere un altro partito. Il problema grave è il condizionamento della politica da parte della mafia”.

Mafia appalti e piazza connection? Non ci sarebbero state – Trattandosi di dichiarazioni contenute in indagini in corso è abbastanza probabile che oggi Falcone sarebbe punito per quell’intervista, finendo magari sotto procedimento disciplinare. Lo prevede la direttiva sulla presunzione d’innocenza approvata dal governo Draghi, che vieta agli investigatori di diffondere informazioni su procedimenti penali in corso: può parlare solo il capo degli uffici e solo tramite conferenza o comunicato stampa. All’epoca il capo dell’ufficio di Falcone era Pietro Giammanco, un magistrato con il quale entrerà in rotta di collisione- come testimoniano gli appunti lasciati nei suoi diari – fino a decidere di abbandonare Palermo. Come si sarebbe comportato Giammanco con le interviste rilasciate da Falcone? Lo avrebbe autorizzato? Senza considerare che la stessa direttiva varata su input della ministra Marta Cartabia vieta di assegnare alle inchieste “denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Chissà se Pizza connection – la maxi indagine sul traffico di droga tra Itlaia e Stati Uniti – si sarebbe potuta chiamare così. Di sicuro sarebbe stato imposssibile ribattezzare “mafia e appalti” l’indagine su Cosa nostra e le gare pubbliche: quel nome avrebbe leso la presunzione d’innocenza di Totò Riina e tutti gli altri.

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