“Secondo me conviene da farci finanziare no mille cartelli che non hanno senso ma siccome c’è l’opportunità in tre anni, in quattro anni farci finanziare l’acquisto di 100, 150 chioschi tra Roma e Milano“. Così in un’intercettazione telefonica parlavano due dei quattro imprenditori arrestati nell’inchiesta del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano su una presunta maxi frode fiscale da 28 milioni di euro, con finti acquisti e vendite di spazi pubblicitari. Stando all’indagine, coordinata dal pm Paolo Storari, gli indagati puntavano ad “ottenere un finanziamento per la realizzazione di un progetto comune consistente nell’acquisto di 100/150 chioschi di edicole suddivisi tra Roma e Milano”. Contestato anche il reato di riciclaggio e sequestrati circa 28 milioni di euro.

Il giudice per le indagini preliminari, Lorenza Pasquinelli, ha firmato una ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari per Marco Verna, amministratore della Media market srl (omonima ma non collegata Media market spa), Giorgio Fallica, amministratore della Defi, Paolo D’amico, amministratore e socio della Joy e Paolo Dosi, amministratore di Clear Channel Jolly. Nell’inchiesta risultano citate anche Media Maker srl, Edizioni Adesso srl, App Media Group srl, Gruppo Editoriale Jedi srl, Portobello spa, BMedia Trade srl, Camar service Sagl, Creative Media D.o.o. Uno dei due imprenditori nell’intercettazione, si legge ancora nell’ordinanza, “suggerisce l’installazione di impianti video attraverso cui veicolare la pubblicità da apporre sulle vetrine delle edicole in questione”.

Come si legge nelle oltre 300 pagine della misura cautelare, gli imprenditori arrestati e altri indagati avrebbero utilizzato nello “schema di frode”, attivo dal 2016, numerose società: “Clear Channel, Urban Vision spa, Urban ADV srl, Portobello spa, Defi Italia spa, Organizzazione Calegari srl, ATC Comunication srl, Media Distribuzione srl, Hidis srl, Mediamix srl, Stone Pubblicità srl, Optima Italia spa, Dao srl, Union Printing spa”. Queste, operando in qualità di “concessionarie delle pubblicità, a fronte della distrazione di fondi aziendali a beneficio delle società agenzie editoriali fornitrici, maturavano un credito Iva fittizio determinato dalla differenza tra un’Iva detraibile con aliquota al 22% ed un’Iva esigibile con aliquota al 4%, pur riferendosi la fatturazione alla medesima tipologia di servizi inesistenti, sia in acquisto che in vendita”.

Dalle indagini è emerso “chiaramente come i principali protagonisti delle operazioni ‘Press Deal‘ siano società collegate tra loro poiché amministrate di diritto e/o di fatto da ricorrenti persone fisiche”. Inoltre, “quelle utilizzate nel ruolo di ‘editori’, o meglio – scrive il gip – quali committenti originari nelle relazioni con Clear Channel (ed altre concessionarie della pubblicità), sono caratterizzate da manifeste irregolarità fiscali“. Nell’ordinanza si dà atto che Clear Channel ha aperto un’indagine interna nel 2018, ha denunciato e “si è resa disponibile a collaborare con l’amministrazione finanziaria al fine di fornire tutte le informazioni e la documentazione utile a verificare la liceità delle operazioni commerciali”. E nel giugno 2018 ha licenziato uno degli amministratori, responsabile del settore Press Deal, che è stato arrestato oggi.

Le indagini, condotte dai finanzieri di Milano con l’ausilio della Divisione Contribuenti/Settore Contrasto Illeciti dell’Agenzia delle Entrate di Milano, hanno consentito “di ricostruire l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata alla realizzazione di un complesso meccanismo di frode fiscale, ideato e denominato dagli stessi indagati ‘Press deal’, attraverso la simulazione dell’acquisto e della vendita di spazi pubblicitari tra le società coinvolte“.

Gli imprenditori indagati avrebbero messo in piedi “uno schema fraudolento attraverso il quale, facendo circolare fatture relative a prestazione inesistenti, con aliquote iva diverse, determinavano un credito iva fittizio a favore della società avente il ruolo di concessionaria dei servizi pubblicitari, con evasione d’imposta stimabile in circa 30 milioni di euro dal 2016 in poi, generato dalla diversa aliquota applicata tra gli acquisti (22 %) e le vendite (4%)”. Avrebbero distratto “i capitali sottratti a tassazione tramite i pagamenti che la concessionaria della pubblicità eseguiva a favore del proprio fornitore” e “autoriciclavano tali risorse, trasferendole verso società conniventi italiane ed estere che provvedevano alla relativa spartizione dei profitti della frode”. Le somme illecitamente conseguite sarebbero state “in parte trasferite ad una società croata ed in parte ad una svizzera, per essere poi impiegate per l’acquisto di appartamenti ubicati presso un complesso immobiliare alberghiero a Panama”.

la società Portobello comunica “la sua totale estraneità alla vicenda” dell’inchiesta su presunti illeciti legati al mondo della pubblicità. La società, si spiega, “secondo il proprio modello di business, vende pubblicità a soggetti terzi in maniera ordinaria e continuativa, rimanendo ignara rispetto all’utilizzo che tali soggetti ne possano fare“. Portobello “non ha, infatti, ricevuto alcuna notifica o informazione in relazione alle predette notizie di stampa, né è stata notiziata o informata dall’autorità inquirente”.
Portobello “si riserva di agire legalmente per tutelare i suoi diritti nei confronti di qualsiasi terzo per eventuali danni subiti o per la trasmissione di notizie errate”.

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