Tre operazioni antimafia, una tonnellata di cocaina proveniente dal Sudamerica, 104 misure cautelari e il sequestro preventivo di aziende, beni immobili, terreni e rapporti finanziari. È il risultato di una maxi-inchiesta che ha decapitato la cosca Molé di Gioia Tauro, le sue ramificazioni in Lombardia e Toscana, ma anche le proiezioni del clan all’estero, come spiegano alcune intercettazioni secondo cui esisteva una “locale europea”. Stando alle indagini, coordinate dalle Direzione distrettuali antimafia di Reggio Calabria, Milano e Firenze, si tratta di gruppi criminali che, seppur dotati di una certa autonomia, operavano in stretta sinergia. L’inchiesta, ad avviso degli inquirenti che hanno coordinato gli accertamenti in Lombardia, ha restituito “la fotografia” di quella che è la ‘ndrangheta oggi: da una parte conserva un carattere arcaico, con i riti di iniziazione e le “mangiate”, e dall’altra parte c’è la “‘ndrangheta 2.0, la ‘ndrangheta societa d’affari”, attiva nell’economia ‘pulita’.

La cocaina arrivava in Calabria ma anche a Livorno. Gli indagati sono accusati di associazione mafiosa, concorso esterno, estorsione, detenzione e porto illegale di armi, autoriciclaggio, associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, produzione, traffico e cessione di sostanze stupefacenti, usura, bancarotta fraudolenta, frode fiscale e corruzione. Per quanto riguarda Reggio Calabria, le indagini coordinate dal procuratore Giovanni Bombardieri hanno portato a 36 ordinanze di custodia cautelare firmate dal gip Tommasina Cotroneo. Trentuno indagati sono finiti in carcere e tra questi capi e gregari dei Molé. La Procura di Reggio Calabria ha stroncato la “nuova narcos europea”, come la definivano gli indagati in un’intercettazione che ha dato il nome all’intera operazione della squadra mobile e dello Sco. Al centro dell’inchiesta la cosca Molé che, dopo lo scontro una decina di anni fa con gli storici alleati Piromalli, è risorta dalle sue ceneri. O meglio non è mai morta stando alle indagini del procuratore Giovanni Bombardieri, dell’aggiunto Gaetano Paci e del pm Paola D’Ambrosio.

Oggi è finito in carcere il giovane boss, di 26 anni, che ha preso le redini di una delle più importanti famiglie di ‘ndrangheta coinvolte nel narcotraffico internazionale. È senza dubbio Rocco Molé, infatti, il principale indagato, figlio del più ben noto ergastolano Girolamo detto don Mommo. Lo stesso giovane che, da minorenne, aveva aderito al progetto “Liberi di ricominciare” che serviva a strappare e salvare i figli dei mafiosi. Un percorso che Rocco Molé ha interrotto alcuni anni fa ritornando a Gioia Tauro e diventando il boss della famiglia mafiosa e il capo dell’organizzazione di narcotrafficanti. Nel marzo 2019, in pieno lockdown, Rocco Molè era stato arrestato perché trovato in possesso di mezza tonnellata di cocaina. La droga era nascosta in una masseria di Gioia Tauro, oggi sequestrata, dove erano stati rinvenuti cinquecento panetti da un chilo alcuni dei quali marchiati con il logo “Real Madrid”, giunti nei giorni precedenti al porto di Gioia Tauro, occultati all’interno di un container commerciale. In manette è finito un altro rampollo, Teodoro Crea detto “Teodorino”, di 20 anni, nipote omonimo dell’anziano boss di Rizziconi conosciuto con il soprannome di “Toro” Crea.

“Questa è stata una cosca che è riuscita a portare in Italia oltre una tonnellata di cocaina – ha spiegato il prefetto Francesco Messina, Direttore centrale anticrimine – Si parla di droga effettiva non droga intercettata”. I Molé controllavano anche il mercato del pesce in tutta la zona di Gioia Tauro. Il core business, però, restava la droga. Secondo il procuratore Bombardieri “quest’indagine ci dà uno spaccato della cosca Molé operativa. Abbiamo riscontrato la presenza a Gioia Tauro di alcuni chimici e di alcuni palombari che si presume abbiano fatto parte parte di organizzazioni militari di altri Stati”. Nel 2019, infatti, la squadra mobile e lo Sco sono riusciti a registrare in Calabria la presenza di soggetti sudamericani. Tra i destinatari dell’ordinanza di custodia cautealare, infatti, ci sono quattro peruviani e un colombiano. In sostanza, la ‘ndrangheta aveva assoldato “chimici e militari appartenenti alla Marina militare peruviana, impiegati, rispettivamente, per la preparazione e il confezionamento delle partite di cocaina e per il recupero in alto mare dei carichi di cocaina giunti dal Sud America a bordo di navi cargo”.

Sono 54, invece, i provvedimenti di fermo eseguiti dalla Procura distrettuale di Milano che ha ricostruito la rete di società utilizzate dalla ‘ndrangheta per riciclare il denaro proveniente dalle attività criminali. L’inchiesta ritiene di aver ricostruito la storia di circa quindici anni di presenza della ‘ndrangheta nel territorio a cavallo tra le province di Como e Varese, evidenziandone la vocazione sempre più imprenditoriale e svelandone le modalità di mimetizzazione e compenetrazione con il tessuto economico-legale. Aprendo una serie di cooperative e ditte che operavano nei trasporti, nella logistica, nel settore delle pulizie, gli uomini delle ‘ndrine avrebbero condizionato pesantemente l’economia del territorio lombardo. Tra gli indagati ci sono anche l’ex sindaco di Lomazzo (Como) Marino Carugati e un ex assessore della giunta che era guidata dal primo cittadino, entrambi, tra l’altro, già condannati per bancarotta. La procuratrice aggiunta Alessandra Dolci ha messo in luce i “rapporti” tra il clan, attivo in Lombardia soprattutto tra le province di Varese e Como, e i due “ex pubblici amministratori”.

La Dda di Firenze, guidata dal procuratore Giuseppe Creazzo, ha portato a 14 misure di custodia cautelare, 13 persone sono finite in carcere e un indagato ha ricevuto un obbligo di dimora. Tra i destinatari delle misure, alcuni lavoravano nel porto della città labronica dove nel corso delle indagini sono stati sequestrati 430 chili di cocaina. Oltre a soggetti ritenuti espressione di due cosche calabresi, tra gli arrestati ci sono anche un presunto broker che faceva da raccordo tra gli esponenti delle ‘ndrine e altri complici in ambito nazionale e internazionale più un dipendente dell’amministrazione civile del ministero dell’Interno che avrebbe falsificato passaporti per alcuni latitanti.

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