La presenza è potenza. È questo che rende le mafie così difficili da sradicare.

La cronaca recente parla di Antonio Gallea, considerato il mandante dell’omicidio del giudice Rosario Livatino avvenuto il 21 settembre 1990, arrestato nell’operazione antimafia “Xydi” assieme ad altre 23 persone, tra cui un ispettore e un assistente capo della Polizia, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, accesso abusivo al sistema informatico e rivelazione di segreti d’ufficio. Coinvolta anche l’avvocata di un boss che aveva assunto un ruolo di vertice in Cosa nostra organizzando i summit nel suo studio, svolgendo il ruolo di messaggera per alcuni detenuti al 41bis. Destinatario del provvedimento di arresto è anche Matteo Messina Denaro, ma il boss trapanese un tempo pupillo di Totò Riina resta latitante, ormai dal 1993.

Gallea che ha lasciato il carcere dopo 25 anni da detenuto modello, in semilibertà dal 2015 rilancia la “Stidda” agrigentina e ne diventa uno dei boss assieme a Santo Gioacchino Rinallo.

Tutto questo deve fare drammaticamente riflettere sulle falle di questo regime speciale, dal punto di vista delle strutture che ospitano questi detenuti, sia per l’aspetto della rieducazione, sia per quanto riguarda la formazione e la serietà di chi lavora in questi circuiti. Il principio scolpito nell’art. 27 Costituzione che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” vale per tutti i reclusi. Mafiosi al 41 bis compresi.

È chiaro, ovviamente, che se le mafie si organizzano costantemente ricoinvolgendo boss scarcerati, la rieducazione è completamente fallimentare o, per meglio dire, inesistente. Così come è gravissimo che ci siano interazioni tra i detenuti e l’esterno ed è inaccettabile che l’essere sottoposti al regime del 41 bis sia stato addirittura un’occasione in più per raggiungere scambi di informazione e messaggi. Orribile poi che ispettori di polizia siano servitori infedeli dello Stato.

E’ bene allora domandarsi se il regime del 41 bis sia di fatto oggi adeguato o piuttosto sia stato svuotato di efficacia. Ma soprattutto se si può veramente parlare oggi di carcere duro.

Per dare risposte a queste domande è stato istituito, all’interno della Commissione antimafia, un gruppo di lavoro sul regime carcerario ai sensi dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario e sulle modalità di esecuzione della pena intramuraria in alta sicurezza. Lo scopo del gruppo è quello di fare una analisi lucida delle reali condizioni degli Istituti di pena che ospitano detenuti per mafia e segnalare in modo concreto le criticità al Ministero di competenza per trovare le idonee soluzioni.

È fondamentale un confronto costruttivo con chi opera a diretto contatto con questa categoria di detenuti, per questo in qualità di coordinatrice del gruppo sono partita a sentire i funzionari del Gruppo Operativo Mobile responsabili e specializzati in questi reparti 41 bis. Gli spunti che sono emersi sono tanti ma le audizioni sono ancora all’inizio.

Il regime di 41bis è uno strumento fondamentale che deve essere tutelato dalle istituzioni. Nasce da un’intuizione del giudice Giovanni Falcone per separare i detenuti mafiosi da quelli comuni ed evitare che i boss mafiosi continuassero dal carcere a comandare e dettare legge nella mafia. Se questa separazione non venisse garantita in modo idoneo verrebbe meno l’intero sistema di prevenzione finalizzato a impedire la commissione di reati. E questo non possiamo proprio permetterlo.