Account bloccati, post cancellati. Personale sanitario a cui viene detto di non diffondere panico tra la popolazione e informazioni cruciali bollate come rumors. È quanto descrive un testimone anonimo sul quotidiano britannico Guardian. Si tratta di uno scrittore cinese che vive in Nord America: racconta della disperazione dei medici che da giorni lavorano interrottamente e di pazienti in attesa da giorni, in ospedale. “Temono di essere abbandonati a loro stessi e di morire a causa di quello che ora è ufficialmente chiamato Covid-19“. L’autore racconta di persone contagiate, che hanno anche infettato i famigliari, costrette a lunghe file d’attesa. Una situazione che si sfoga anche sui social: “Su Weibo – scrive il testimone cinese sul Guardian -, una delle più grandi piattaforme di social media in Cina, c’è un gruppo di oltre 150mila persone – per lo più pazienti e le loro famiglie – che chiede aiuto. Leggendo i post, è chiaro che manchi di tutto. In tanti devono scegliere se dare priorità alla madre o alla figlia, al nipote o al nonno, alla moglie o al marito”. In questa situazione, tutti lottano: medici e operatori sanitari. Eppure la Cina avrebbe dovuto “imparare molto dallo scoppio di Sars 17 anni fa”.

L’autore ricorda che fin dal 7 gennaio le autorità di Pechino sapevano della diffusione del virus, ma Wuhan “ha ordinato di non diffondere la notizia”.Emblematico il caso di Li Weinliang, l’oftalmologo tra i primi a individuare l’ascesa del nuovo virus già a fine dicembre. Ad alcuni colleghi aveva inviato in chat i dati relativi all’infezione dei pazienti: la polizia ha bussato alla sua porta intimandogli di smetterla di diffondere notizie “illegali” che turbavano l’ordine pubblico. Il medico è stato ucciso dal coronavirus e il suo caso ha generato frustrazione e rabbia tra i cinesi, perché quelle che diffondevano lui e altri sette professionisti non erano “voci”, ma “evidenze di casi di infezione negli ospedali di Wuhan. Se il governo avesse approfondito questi casi, avrebbe salvato diverse vite”.

Il testimone prosegue poi nel racconto, riferendo che “a metà gennaio, un’infermiera mi ha detto che a Wuhan era stato consigliato agli operatori sanitari di non indossare presidi sanitari protettivi per evitare il panico. Più tardi, Song (un medico che cita nel pezzo, ndr) mi disse che gli operatori sanitari erano stati invitati a non chiedere aiuto ai media. Ora 1700 di loro sono stati contagiati a livello nazionale”. E anche ora, a epidemia conclamata con 70mila contagiati e oltre 1.700 vittime, “il governo cerca ancora di nascondere le informazioni. Migliaia di post in cui si chiedeva aiuto sono stati cancellati dal gruppo online. Gli editori dei media cinesi mi hanno detto che non avrei potuto scrivere nulla che potesse criticare il governo”.

Sulla cancellazione dei post è significativa la storia raccontata oggi da Repubblica di Mengdi Liu, 24enne originaria di Wuhan che si trova a Milano per un master di Architettura. Suo nonno è stato ucciso dal coronavirus, mentre il padre, infetto, è in fin di vita. Su Weibo cercava di aiutare il nonno a trovare un ospedale che potesse accoglierlo: ma alla sua famiglia è stato detto di smetterla con gli appelli online. Poi, quando anche il padre si è ammalato, a Mengdi è stato bloccato anche l’account su WeChat: era il mezzo che utilizzava per inviargli messaggi e video. “Questo account di WeChat è sospettato di diffondere voci dannose ed è stato temporaneamente bloccato”, si legge sul suo smartphone. Di più non è dato sapere. “Ho sempre cercato solamente di esprimere vicinanza alla mia famiglia, tutto qui – spiega la ragazza-. Sono tanti gli account bloccati in Cina, ma nessuno sa davvero perché, ci sono così tante notizie che circolano, difficile se siano vere o false“.

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