“L’Unione Europea, nonostante tutti i suoi punti di forza e le ammirevoli qualità, è evoluta negli ultimi 50 anni verso una direzione che non si addice più” al Regno Unito. Per questo la scelta del divorzio da Bruxelles è “sana e democratica” e serve a restituire “sovranità” al Paese su temi quali “controllo dell’immigrazione”, commerci, legislazione. Nel giorno dell’addio all’Unione europea, il premier britannico Boris Johnson in un messaggio alla nazione ha fatto sfoggio di ottimismo e richiamato all’unità un Paese profondamente lacerato, anche se in maggioranza sollevato dalla sensazione di aver dato almeno un primo taglio alle incertezze.

La Brexit diventa realtà nella notte, l’Union Jack e la bandiera azzurra con le stelle europee si separano, ammainate nei rispettivi palazzi del potere, fra i festeggiamenti colorati, a tratti rabbiosi, e il boato del popolo euroscettico riunito in folla a Londra; e le recriminazioni, il rammarico, il dolore di chi questo epilogo non avrebbe voluto: nel Regno come altrove.Il premier Tory, dopo aver già condotto in prima fila la campagna pro Leave del referendum del giugno 2016, ha definito questo passaggio – comunque epocale – “l’alba di una nuova era”, che “non segna una fine, ma un inizio”.

Ha ricordato che la scelta di uscire dall’Ue è stata sancita “due volte dal giudizio del popolo“, tanto nel 2016 quanto alle elezioni del dicembre scorso. E ha esaltato le speranze di un rinnovato slancio all’interno, di un ruolo europeo e globale “indipendente” del Regno, ma anche di una “cooperazione amichevole” di buon vicinato con gli ex partner dell’Ue. In un contesto nel quale ha spronato i compatrioti a “scatenare il potenziale” d’una nazione che fu impero, a credere nel cambiamento come alla chance di un “clamoroso successo”. Non senza insistere sulla convinzione che la direzione intrapresa dal club europeo, pur “con tutte le sue ammirevoli qualità”, non fosse più adatta al destino britannico.

“Per molte persone – ha aggiunto – questo è uno stupefacente momento di speranza, un momento che pensavano non sarebbe mai arrivato. E ci sono molti, naturalmente, che sentono un senso di ansia e di perdita“. Parole accompagnate da toni di comprensione verso “il senso di smarrimento” di quella metà del Paese che alla Brexit ha guardato come a un errore storico o a un azzardo. E dall’impegno del governo a cercare la strada per ricondurre ora il Regno “all’unità” in modo da poter guardare avanti “insieme”.

La Gran Bretagna saluta così l’Ue e la Manica torna a essere un confine europeo, fra il continente e l’isola. È bastato lo scoccare di un secondo, segnato dal countdown sulla facciata di Downing Street e sulle bianche scogliere di Dover, a chiudere una pagina di storia durata quasi mezzo secolo, dal ’73 a oggi: quella del matrimonio, d’interesse eppure non privo di frutti, di Londra con Bruxelles. Le incognite del futuro restano d’altronde numerose e tutte da affrontare. A iniziare dal cruciale negoziato, da chiudere nei soli 11 mesi di transizione che Londra intende concedersi sino al 31 dicembre 2020 sulle relazioni post divorzio – commerciali in primis – con i 27; e dalle scommesse sulle parallele intese di libero scambio auspicate con gli Usa e con altre potenze terze. Senza contare le promesse sul controllo dell’immigrazione, sugli investimenti in infrastrutture e servizi, sull’alleggerimento delle disparità a beneficio di aree depresse come il nord dell’Inghilterra, dove l’esecutivo ha tenuto nel Brexit Day un consiglio dei ministri simbolico nell’euroscettica Sunderland. Traguardi da conciliare con le stime affannate del Pil e con non poche contraddizioni interne.

Contraddizioni che si sono riflesse nelle piazze di Londra e non solo. Dove sono scesi dapprima, fra rimpianti e lacrime, gruppetti di remainer non pentiti, rappresentanza di una fetta ampia di Paese che continua a masticare amaro, rispecchiandosi nel “cuore spezzato” del sindaco laburista della capitale, Sadiq Khan, nonostante l’invito di chi – come Tony Blair o Gina Miller – li invita a riconoscere la realtà d’una battaglia perduta per diversi anni a venire. Poi i sostenitori della Brexit, molti provenienti da fuori Londra, e arringati dalle parole del pioniere Nigel Farage, radunatisi a decine di migliaia in serata fino a riempire Westminster Square, in barba alla pioggia, per far sventolare – tra fuochi, brindisi, inni e comizi – bandiere e simboli nazional-patriottici.

E contraddizioni che non smettono di agitare le nazioni del ‘no’: l’Irlanda del Nord, dove ha rifatto capolino una linea di frontiera pur invisibile con Dublino; e soprattutto la Scozia, dove la piazza di Edimburgo ha risposto a quella di Londra e la first minister indipendentista Nicola Sturgeon è tornata a invocare l’obiettivo di un secondo referendum secessionista. Intanto da Bruxelles e dalle varie capitali continentali, la consapevolezza del momento “storico” si è unita ad accenti di “tristezza”, talora d’allarme, nelle voci dei leader: da Giuseppe Conte a Emmanuel Macron, passando per il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli, e per il commissario Paolo Gentiloni. Mentre Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, ha tenuto a lasciare aperta la porta al “miglior partenariato possibile” con il Regno che va via, ma ricordando che nessun accordo potrà mai essere come “la membership”. E dicendosi certa che non sarà “lo splendido isolamento” la soluzione ai problemi del domani.

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