Erano le 7 del mattino del 19 marzo, San Giuseppe, quando il camorrista Angelo Quadrano pose fine alla vita di Don Peppe Diana, il sacerdote di Casal di Principe che aveva dedicato la sua esistenza a contrastare il malaffare e la corruzione.

Sono passati 25 anni da quella esecuzione e la memoria di Don Peppe è restata viva e vitale perché la sue parole e le sue azioni hanno continuato a produrre frutti che alimentano le speranze di chi ancora, ogni giorno, contrasta la camorra. Non casualmente migliaia e migliaia di giovani scout, e non solo loro, hanno attraversato, anche in queste ore, le vie di Casal di Principe, ripercorrendo i luoghi del suo itinerario educativo, politico e civile. I proiettili della camorra, infatti, lo avevano colpito per mettere fine alle sue quotidiane lezioni di legalità, al tentativo di strappare i giovani dalle mani dei clan, alla continua predicazione contro i falsi idoli offerti dagli assassini di ogni speranza e della civile convivenza.

Quel prete che non si arrendeva era considerato pericoloso, era per loro un “cattivo maestro”, uno che non ricercava patti e che denunciava quell’aria grigia abitata anche da rappresentati dello Stato, da pubblici amministratori e da qualche uomo di Chiesa che non disdegnava la frequentazione del boss di turno, magari facendo inchinare la statua del Santo davanti alle loro case.
“In nome del suo popolo”, per parafrasare il titolo del manifesto che forse fu la causa del suo assassinio, Don Peppe decise di usare la sua Chiesa, la sua missione pastorale, il suo impegno di cittadino, che aveva nel cuore il Vangelo e la Costituzione, per denunciare e per suscitare una rivolta delle coscienze contro chi inquinava la terra e le coscienze.

Dopo averlo ucciso, tentarono anche di diffamarlo, ripetendo lo stesso copione utilizzato per Pippo Fava, Peppino Impastato, Giovanni Spampinato, Giancarlo Siani, Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e, in questi ultimi tempi, per Giulio Regeni. Le mafie e i regimi di ogni colore dopo aver eseguito la sentenza tentano di buttare il fango sulle vittime, insinuano che il movente dell’assassinio vada cercato “nel torbido mondo del vizio”, nel delitto passionale, in un regolamento di conti privato… Nel caso di Don Peppe tentarono persino di accostare il suo nome ai clan mafiosi e trovarono udienza in qualche giornale locale e in qualche cronista compiacente e connivente.

Quegli uomini senza dignità e senza onore sono finiti travolti dal loro stesso fango.

Il parroco di Casal di Principe continua a vivere nel suo testamento, nelle parole della “Lettera al mio popolo” che non sono memoria del passato, ma monito per il futuro: “Tra qualche anno non vorremmo batterci il petto e dire con Geremia: ‘Siamo rimasti lontani dalla pace..abbiamo dimenticato Il benessere. La continua esperienza del nostro incerto vagare in alto e in basso… del nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare..sono come assenzio e veleno’”.

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