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Cocò Campolongo, ergastolo per i killer del piccolo ucciso con il nonno che lo usava come scudo

Il bambino di 3 anni fu trovato carbonizzato a Cassano allo Jonio all’interno dell’auto del nonno Giuseppe Iannicelli, anche lui ucciso e dato alle fiamme assieme a una ragazza marocchina di 27 anni, Ibtissa Touss, con la quale l’uomo da tempo intratteneva una relazione sentimentale
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Ergastolo con isolamento diurno per sei mesi. Su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, la Corte d’assise di Cosenza ha condannato al carcere a vita Faustino Campilongo detto “panzetta” e Cosimo Donato detto il “topo”. Sono loro che, per entrare nella ‘ndrangheta che conta, nel gennaio 2014 hanno ucciso il piccolo Cocò Campolongo, il bambino di 3 anni trovato carbonizzato a Cassano allo Jonio all’interno dell’auto del nonno Giuseppe Iannicelli, anche lui ucciso e dato alle fiamme assieme a una ragazza marocchina di 27 anni, Ibtissa Touss, con la quale l’uomo da tempo intratteneva una relazione sentimentale. Al termine del processo è stata accolta la richiesta del procuratore aggiunto Vincenzo Luberto che, durante la requisitoria, aveva ricostruito la dinamica e il movente del delitto maturato nell’ambiente del traffico della droga gestito dagli Abbruzzese conosciuti come la cosca degli “zingari”.

Pur essendo imparentato con gli esponenti della famiglia mafiosa, il nonno di Cocò da mesi era un loro bersaglio. Si sarebbe rifornito dai rivali della cosca e per questo doveva pagare. Sapeva di essere in pericolo e per questo si faceva accompagnare sempre dalla compagna e dal nipotino che era stato affidato a lui, unico familiare libero. Entrambi i genitori di Cocò, infatti, erano in carcere quando il figlio è stato ucciso. Neanche davanti al piccolo e alla ragazza straniera i sicari della cosca si sono fermati. Donne e bambini utilizzati come “scudi umani” da Giuseppe Iannicelli, sorvegliato speciale e con numerosi precedenti penali per traffico di droga.

Poche ore prima di essere ucciso, il nonno di Cocò sarebbe stato “convinto a portarsi in un luogo isolato da persone che conosceva e delle quali si fidava per essere poi eliminato”. “Iannicelli – aveva scritto il gip nell’ordinanza di custodia cautelare a carico di Campilongo e Donato – era entrato in contrasto con gli Abbruzzese ai quali era in passato affiliato per aver fatto dichiarazioni a loro carico nel processo “Katrina”, perché intenzionato a collaborare con le istituzioni”. Lo scontro con gli “zingari” però aveva altre causali. La cosca, infatti, non aveva accettato la scelta di Iannicelli  di “mantenere un ambito di autonomia nella sua attività di narcotrafficante, procacciandosi la droga non solo dagli Abbruzzese ma anche dai loro nemici (i Forestefano) ovvero, comunque, da canali alternativi (come gli albanesi) e un simile comportamento è intollerabile per un’associazione a delinquere di stampo mafioso che per, per statuto, nel proprio territorio di riferimento mira al controllo esclusivo di tutte le attività illecite”. Quando è stato ritrovato, il corpo di Giuseppe Iannicelli era chiuso nel cofano dell’auto. Completamente carbonizzato così come gli altri due. Sul sedile posteriore erano legati la sua compagna e il piccolo Cocò, diventato per la ‘ndrangheta quello che Giuseppe Di Matteo è stato per Cosa Nostra. Sei mesi dopo la strage di Cassano allo Jonio, in Calabria arrivò Papa Francesco che, davanti a 250mila fedeli, punto il dito contro le cosche. “La Chiesa deve dire di no alla ‘ndrangheta. – le parole di Bergoglio – I mafiosi sono scomunicati. Mai più succeda che un bambino debba sopportare queste sofferenze”.

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