di Leonardo Botta

Appartengo a quella categoria di insegnanti che ai loro studenti raccomanda la comprensione piuttosto che la memorizzazione. Mi sono sempre “sparato le pose” (“vantato”, per chi campano non è) con i miei ragazzi di avere una pessima memoria, raccontando loro col petto in fuori che se io, il loro prof, non avessi provato a comprendere ed elaborare i concetti fondamentali degli argomenti che studiavo all’università, mai e poi mai sarei riuscito a conseguire una laurea: le capacità di analisi e di sintesi avevano, in qualche modo, ben compensato le mie lacune mnemoniche. Mi piaceva vantarmi anche di non esser buono a far di conto. “Tanto ci sono le ‘macchinette’, le calcolatrici; chi se ne frega di fare una moltiplicazione a due cifre a mente”.

In fondo vengo dalla nuova fucina dei docenti, quelli cui è stata spiegata la differenza tra conoscenze, abilità, competenze. Infatti un mio vecchio professore e collega di professione mi raccontò un giorno: “Se un geometra o un giovane ingegnere bussa alla porta di uno studio tecnico per lavorare, non gli chiedono cosa sa, ma cosa sa fare”.
Confesso, mi hanno sempre fatto sorridere quelli che riuscivano a “imparare a memoria”; li consideravo spocchiosamente (forse per un recondito senso di invidia?) una sorta di Rain Man di noialtri, degli utili idioti cui madre natura, per riparare, aveva dato il premio di consolazione. L’ultima volta in cui pensai male di uno di loro fu agli esami di maturità di un po’ di anni fa: ero commissario esterno, rimasi colpito da un candidato che discuteva un brano di inglese scandendo meccanicamente, parola per parola, il testo che la collega della materia e io seguivamo con il dito sulla tesina che ci aveva fornito. Pensavo: “questo qui forse non capisce un ca**o!”.

Poi lessi un illuminante articolo del compianto Umberto Eco su L’Espresso; era la lettera al suo nipotino per il nuovo anno. E capii che a non aver capito niente ero proprio io. Il professor Eco ricordava, a se stesso, al suo pargolo e ai lettori, l’importanza della memoria. Ricordava che il cervello, in fondo, è un muscolo come gli altri (anche se degli altri ben più importante), e come tale va allenato, giorno per giorno, ora per ora, per evitare che perda tono, si atrofizzi (rischio forse amplificato dall’avvento dell’era informatica, con il web, le letture on-line, Wikipedia, oggi perfino l’AI a portata di click).

Al suo discendente Eco raccomandava di imparare ogni giorno qualche strofa di una poesia (La cavallina storna, Il sabato del villaggio, La vispa Teresa). Di apprendere i fatti del passato, recente o remoto: chi o cos’erano Carlo Magno, il fascismo, le Brigate Rosse, Aldo Moro; capire, insomma, chi siamo stati per immaginare cosa potremo diventare. Sottolineava quanto fosse bello, per lui allora ottuagenario, avere ancora immagazzinata in mente la formazione del grande Torino, quello spazzato via da un fatale impatto aereo con la collina di Superga; e cosa si fosse perso il nipote non leggendo D’artagnan e i tre moschettieri.

Mi viene in mente tutto questo ora che leggo della proposta del ministro Valditara di reintrodurre alle elementari e medie (scusatemi, mi viene ancora da chiamare così la primaria e la secondaria di primo grado) lo studio delle poesie a memoria che, per la verità, manco sapevo fosse stato abrogato. E sì, condivido decisamente; e sono contento, sono fiero, di poter dire che, a pensarci bene e nel mio piccolo, qualcosa la ricordo ancora anch’io. Ricordo ‘A livella di Totò (“Ogni anno, il due novembre, c’è l’usanza per i defunti andare al cimitero. Ognuno ‘ll’ha da fa’ chesta crianza, ognuno ha da tene’ chistu pensiero…”) che insegnavo alla mia prima figlia da piccola, la quale spavaldamente la recitava in ogni occasione, al cospetto di amici o parenti pazientemente disposti ad ascoltare, incurante di fracassare i timpani a me e mia moglie che la risentivamo per la centesima volta.

Ricordo un’altra poesia tutta in vernacolo, ‘A Madonna d’’e mandarine’ (“Quanno ncielo n’angiulillo nun fa chello c’ha da fa’, ‘o Signore int’a na cella scura scura ‘o fa nzerrà…” ), che somministravo all’altra mia bimba, la quale un giorno cominciò a navigare con le sue manine tra i motori di ricerca su Internet, trovò la poesia, la stampò e, quando si accorse quanto la scrittura in vernacolo fosse di difficile comprensione, stampò pure la traduzione in italiano.

Ricordo i nomi della mia classe, la 1F dell’anno scolastico 1985/86: Amabile, Avellino, Battipaglia, Bisogno, Bonacci, Botta, Cafaro, Carrano, Carrara, Celano, Ciotti, Del Pezzo, Ferrigno, Gagliardi, Malinconico, Molinaro, Murante, Perfetto, Perla, Saturno, Siani, Vitolo (giuro, non sto inventando). O la formazione del Napoli del primo scudetto: Garella, Bruscolotti, Renica, Bagni, Ferrario, De Vecchi, Caffarelli, Romano, Giordano, Maradona, Carnevale (giuro, non l’ho cercata su internet). E ripenso, con infinito piacere, a un concerto a cui partecipai, con Gaetano Curreri e gli Stadio che intonavano: “… chiedi chi erano i Beatles…”. Ecco, chiediamo, ai nostri figli, o fratelli adolescenti, chi erano i Beatles, De André, Rino Gaetano e Mia Martini; o Salvo D’acquisto e i fratelli Cervi, Marie Curie e Marconi, Walt Whitman e Alda Merini.

Un grazie al professor Eco per la grande lezione che ci ha impartito e il mio plauso al ministro Valditara per la sua iniziativa.

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