Cultura

A proposito di Schmidt: come sono andati i due mandati da direttore degli Uffizi che potrebbe essere candidato del centrodestra a Firenze?

di Marco Ferri

Per un cospicuo gruppo di dirigenti dei musei statali italiani è tempo di pagelle di fine corso. Tra questi uno in particolare è il direttore degli Uffizi Eike Schmidt, rimbalzato spesso sui giornali negli ultimi mesi e in particolare nelle ultime settimane, anche grazie al fatto che proprio venerdì il ministro Gennaro Sangiuliano lo ha nominato direttore del museo napoletano di Capodimonte e soprattutto, volente o meno, è per il momento il candidato in pectore del centrodestra per le prossime elezioni comunali di Firenze. Tutto questo rende l’analisi del suo operato agli Uffizi non solo interessante, ma perfino necessaria.

Tra il 2015 e il 2023 il ruolo di Direttore degli Uffizi, Schmidt l’ha svolto in qualità di dirigente di prima fascia, cioè parificato al ruolo di direttore generale di ministero della Cultura e che risponde solo al ministro. Fino al 19 dicembre guiderà il museo fiorentino più celebre, le “Gallerie degli Uffizi”, secondo l’accezione coniata otto anni fa, in seguito alla capricciosa riforma Franceschini. In pratica, con lo spacchettamento del Polo Museale Fiorentino, retto da Antonio Paolucci e poi da Cristina Acidini, si formarono tre gruppi di musei autonomi (Uffizi, Bargello e Gallerie dell’Accademia), mentre i restanti musei confluirono nel Polo museale regionale, da allora “condannato” a vivere di stenti. Il risultato per gli Uffizi fu che da stella di prima grandezza nel panorama italiano si ritrovò a guidare un mini-polo di una decina di istituti – tra musei e il Giardino di Boboli – e con a capo un nuovo dirigente, Schmidt appunto.

Neanche a metà del suo primo mandato – quando il ministro era il pentastellato Alberto Bonisoli – partecipò al concorso per diventare il nuovo direttore del Kunsthistoriches di Vienna, lo vinse ma poi ci ripensò a poche settimane dall’assunzione dell’incarico, determinando un’impressione non proprio positiva sia di se stesso sia della Galleria degli Uffizi. E invece ora è arrivato alla fine di due mandati durante i quali pare sia stata più la Galleria a far del bene al dirigente, che non il contrario. Come sono andati, dunque, questi otto anni da guida degli Uffizi? Diversamente dal mini-polo dei Musei del Bargello, il mini-polo delle Gallerie degli Uffizi – formato dal museo capofila, quelli di Palazzo Pitti, il Giardino di Boboli, il corridoio Vasariano e il mai nato Museo delle carrozze – serviva anche per accorpare più musei e incrementare con enfasi il numero degli ingressi. A detta di Schmidt, per esempio, quest’anno le Gallerie degli Uffizi arriveranno a cinque milioni di visitatori e probabilmente riusciranno perfino a superare quella soglia psicologica, ma come spesso accade non è tutto oro quel che luccica.

In questi giorni molti direttori di musei autonomi in scadenza di mandato fanno le corse per concludere i loro progetti; se invece non vi sono riusciti, in qualche caso fioccano le giustificazioni. Che alla platea dei visitatori dei musei poco importano. A chi paga il biglietto d’ingresso, spesso anche caro, interessa che il museo funzioni, sia fruibile e permetta di vivere un’esperienza forte. Se ciò non è possibile, le motivazioni delle scuse non ripagheranno la lacuna.

In queste ultime settimane Schmidt ha intensificato la sua attività di inaugurazione di mostre, di presentazione di volumi, di concessione di interviste sugli otto anni trascorsi alla guida del più visitato museo d’Italia. In tutti questi anni il dirigente degli Uffizi ha potuto contare anche sulla collaborazione di organi consultivi previsti dalla legge e formati da addetti ai lavori. Qualcuno di loro però si è mostrato talvolta in disaccordo con le azioni dirigenziali, ma è sempre rimasto al proprio posto (e sarebbe interessante capire perché).

In ogni caso è utile stare agganciati ai dati certi: per esempio i visitatori degli Uffizi – sia come mini-polo, sia come museo singolo – nel 2022 ancora non erano tornati al livello pre-Covid del 2019, così come la situazione degli istituti di Palazzo Pitti non è poi così rosea. A cominciare dalla Galleria del costume – che fu subito ribattezzato “Museo della moda e del costume” – che doveva diventare un fiore all’occhiello della museografia italiana, ma è stato riaperto solo lo scorso 12 dicembre, dopo tre anni di oblio.

Vi è poi il Museo delle carrozze del complesso di Palazzo Pitti, di cui a fine ottobre 2018 il dirigente dava per certa la nascita, ma che cinque anni dopo ancora non si è concretizzata. E ancora il Museo delle porcellane del Giardino di Boboli, anch’esso chiuso da tempo per “riallestimento”. Sempre in Boboli brilla per la sua eterna chiusura il settecentesco Kaffeehaus, per il cui bando di gestione tanti anni fa furono interpellati perfino i docenti della Bocconi; da troppi anni quell’opera presente sui principali manuali di storia dell’architettura rimane ancora inaccessibile.

E c’è poi il caso del Corridoio Vasariano, che il dirigente chiuse appena un anno dopo il suo insediamento e che non è mai stato in grado di riaprire: sette anni sono quasi un’era geologica se si guarda con quanta velocità invece sono state intraprese altre iniziative (anche legate a un particolare suo interesse per l’arte contemporanea proposta nei principali “santuari” di quella più classica e che ha alimentato numerose polemiche). La chiusura del “Corridoio” ha privato i visitatori della bellezza esclusiva del cammino aereo che collega la fabbrica vasariana al Giardino di Boboli e poi a Palazzo Pitti e soprattutto della visione di oltre 500 autoritratti di artisti italiani e internazionali, cioè di poco meno di un terzo dell’intera collezione esclusiva conservata nel deposito della Galleria. E sa quasi di beffa l’aver destinato di recente poco più di 200 Autoritratti in una serie di sale al piano nobile della Galleria: in fin dei conti il visitatore ne può ammirare oltre 300 di meno di quelli che erano in mostra nel Vasariano. A conti fatti è una perdita notevole.

Sempre in fatto di gestione degli spazi, l’ampia sala al piano terra sotto la Biblioteca degli Uffizi – in zona alluvionale (a due passi dall’Arno) – inizialmente destinata alle mostre temporanee della Galleria, tra l’ottobre 2018 e il gennaio 2019 ospitò l’esposizione la mostra L’acqua microscopio della natura. Il codice Leicester di Leonardo da Vinci, poi seguita da quella dedicata ad Antony Gormley (tra febbraio e maggio 2019) poi più niente perché gli stessi spazi, fuori dal percorso museale, non richiamavano il pubblico previsto e così furono destinati al bookshop gestito dal concessionario; oggi le mostre temporanee sono allestite lungo un percorso subito dopo il metal-detector, prima di salire in Galleria e, dal momento che il pubblico passa davanti a qualsiasi cosa sia in mostra in quel tratto iniziale, ogni persona che transita viene conteggiata come “visitatore” di quella esposizione, sia che la guardi, sia che non vi faccia neanche caso. Ovviamente si potrebbe discutere per mesi sul senso di una simile soluzione museografica.

Vi sono poi altre iniziative intraprese dal dirigente che in questi anni hanno fatto discutere, come l’aumento del biglietto a 25 euro e la creazione del “percorso breve” per cui dopo aver ammirato tanti capolavori al secondo piano della Galleria, il visitatore frettoloso e in vena solo di selfie davanti agli irrinunciabili totem artistici, viene come invitato a saltare a piè pari il piano nobile e a uscire dal museo. Solo che così facendo si perde, per esempio, i dipinti del Cinquecento fiorentino, Caravaggio e tutto il Seicento. Si tratta di decisioni che hanno a che fare con la dottrina ministeriale di trasformare i musei, soprattutto quelli più attraenti, in vere e proprie macchine da soldi – si chiama “capitalizzazione della cultura” – piuttosto che in luoghi di cultura, di educazione e di riflessione, per cui i dirigenti interessati in questo caso hanno responsabilità relative.

Al livello di questioni amministrative c’è da registrare agli Uffizi un diffuso ricorso a personale ormai in pensione, così come la gara per l’affidamento dei servizi aggiuntivi – quelli che lo Stato non riesce a coprire e allora li affida a società private per un determinato periodo di tempo – è come paralizzata, nonostante il concessionario presente sta agendo in regime di prorogatio dal 2006 (cioè senza affidare gli appalti dopo una regolare gara). Per il nuovo affidamento è stato finalmente preparato un bando, il cui esito doveva già esser noto, invece le comunicazioni stanno tardando. Alla fine dello scorso settembre sono state aperte le buste per l’offerta tecnica, mentre per quella economica pare occorra ancora del tempo. Di certo, per il momento non vi è alcun vincitore, né comunicazioni ufficiali a riguardo. E la prorogatio prosegue.

In cauda venenum: l’infinito cantiere dei Nuovi Uffizi: Schmidt non ha mai dato l’idea di esser riuscito nell’impresa di accelerare i lavori che vanno avanti dal marzo 2006: un anno fa affermò che entro quest’anno (2023) la “gru mamma”, quella che staziona da 17 anni nel piazzale degli Uffizi, sarebbe sparita entro San Silvestro; poco dopo iniziò a circolare la voce che invece sarebbe stata smontata entro Pasqua (sempre di quest’anno), ma è ancora lì, perché pare sia troppo costoso rimuoverla. E la novella dello stento prosegue. Anzi si allarga, perché la prima visita del ministro Sangiuliano agli Uffizi fu per verificare la fine dei lavori al nuovo ristorante che però deve ancora nascere. Quando il lieto evento avverrà non si potrà più dire che con la cultura non si mangia.

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