Perché recensire, in un sol colpo, un volume su Monteverdi e un altro su Ravel, musicisti diversi per epoca, estrazione, formazione, cultura, generi musicali? Semplice: perché si tratta di due libri bene informati ma di agevole lettura, che coniugano egregiamente ‘sapere sapiente’ e divulgazione. E così sollecitano il lettore a penetrare le musiche di due grandi compositori, che una persona di media cultura non può ignorare.

A Giuseppe Clericetti si deve Monteverdi: miracolosa bellezza (Zecchini, 2023); a Livio Aragona, Maurice Ravel (riedizione Curci, 2023). Il primo libro è presentato da Carla Moreni, la signora della critica musicale italiana; il secondo da Angelo Foletto, per tanti anni presidente dell’Associazione Nazionale Critici musicali. Nel presentare i volumi, i due critici mettono in risalto quel nesso necessario e virtuoso che, per l’appunto, dovrebbe sempre sussistere fra ricerca erudita e comunicazione dei risultati, fra il lavoro acribico del musicologo e quello delicatissimo di diffusione culturale del critico, del giornalista, del docente di scuola o del semplice divulgatore.

Clericetti, esperto della musica organistica del XVI secolo, ma versato anche nella musica francese dell’Ottocento, lavora per la Radio della Svizzera italiana. In circa 350 pagine racconta la vita e l’opera del “divino Claudio” (1567-1643), in un percorso storico mirato alle tre città che ne scandiscono la biografia: Cremona, Mantova, Venezia. Il compositore vive un periodo di grandi rivolgimenti politici e sociali, che sul piano artistico vede la nascita di un genere nuovo, l’opera in musica, destinato a modificare in breve tempo luoghi, ritmi, modi di produzione e gusti musicali. Clericetti illustra, fra l’altro, i divergenti aspetti e problemi posti dall’Orfeo mantovano (1607) – un’opera di corte ai tempi dei Gonzaga – e dall’Incoronazione di Poppea (1643), opera impresariale: lo fa toccando con penna leggera punti sensibili come l’intrinseca evasività delle fonti, la controversa attribuzione dell’Incoronazione allo stesso Monteverdi, le varianti rispetto ai libretti, la grafia delle musiche.

Si diffonde sugli otto, mirabili libri di madrigali: ne interroga i testi poetici nella struttura, nella veste linguistica, nel rapporto con l’espressione musicale. Include anche un’attenta considerazione della musica sacra, un genere nel quale Monteverdi diede capolavori altissimi come il Vespro del 1610 o la Selva morale del 1641. E nell’introduzione si lascia andare anche a un esercizio di “fantacritica”, così lo definisce: per spiegare il quadro mentale del compositore immagina quali libri e opere Monteverdi tenesse in casa. Di certo c’erano le Prose della volgar lingua di Bembo, le Rime del Tasso, Il pastor fido di Guarini, L’arte del contrappunto di Artusi, la Secchia rapita di Alessandro Tassoni, la Lira del Marino e tanti altri. Una riflessione sorge spontanea: sarebbe stato così grande, Claudio Monteverdi, se non avesse incamerato così tanta sapienza?

Sembra che Maurice Ravel lavorasse di continuo: diceva ai giovani compositori che tutto il male del mondo deriva dal fatto che Dio si riposò il settimo giorno. Ce lo racconta Livio Aragona, docente al Conservatorio di Mantova, nel suo prezioso libro, scritto con molto garbo. Sulla scorta di questo delizioso apologo illustra la creatività del musicista francese (1875-1937): impegno quotidiano, lavoro indefesso, dedizione totale alla scrittura, rifinitura dei particolari. In Ravel, l’interesse per il nuovo – l’uso del sassofono, per dire, o del piano-luthéal, strumento a metà fra un pianoforte e il cymbalon ungherese – si sposa a quello per l’antico e per la tradizione: stimava Gabriel Fauré e prediligeva Emmanuel Chabrier, guardò a Mendelssohn, Liszt, Erik Satie, e beninteso a Claude Debussy. Ma più di costui indulge alla costruzione “classica”, dai contorni meno sfumati, nella quale “la sintassi tonale non viene quasi mai davvero neutralizzata, piuttosto arricchita”.

Ineguagliata è poi l’attenzione al timbro, la seducente bellezza delle linee melodiche, la mescolanza di linguaggi e stili diversi: la musica dei salotti, le atmosfere spagnole, i richiami orientaleggianti, le movenze del valzer. Aragona si addentra nelle composizioni, e di ognuna offre, talvolta in pochi tratti, una caratterizzazione vivida: in Gaspard de la nuit, per pianoforte, emerge la dimensione visiva ed evocativa, suggerita dai poemi in prosa di Aloysius Bertrand; nei cinque “pezzi infantili” di Ma mère l’Oye per pianoforte a quattro mani si coglie l’impronta ben individuata di altrettante fiabe francesi ricavate da Perrault. Belli i capitoli sulla musica orchestrale e da camera, la musica vocale e quella teatrale: danno un quadro sintetico ed efficace di creazioni magnifiche come Daphnis et Chloé, la Tzigane per violino, i Trois poèmes de Stéphane Mallarmé, il surreale L’enfant et les sortilèges. Un libro, questo di Aragona, da tenere sott’occhio, da leggere o consultare all’occorrenza.

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