Un bene confiscato a don Tano Badalamenti, ristrutturato dal Comune di Cinisi e assegnato alla onlus ‘Casa memoria Felicia e Peppino Impastato’, è finito al centro di un contenzioso tra gli eredi del boss e l’amministrazione comunale. Una vicenda in cui ci sono due diverse sentenze e due distinti importi sul valore dell’immobile. È la controversa storia giudiziaria del casolare appartenuto a ‘zu Tano’, capomafia di Cinisi e già capo della commissione di Cosa nostra, noto soprattutto per essere il mandante dell’omicidio di Peppino Impastato, delitto per il quale fu condannato solo in primo grado, visto che il boss morì prima che la sentenza diventasse definitiva.

“Tano seduto”, come lo chiamava Impastato, era scappato in Brasile, per sfuggire ai corleonesi di Totò Riina durante la seconda guerra di mafia.Da lì gestiva un traffico internazionale di droga, che gli è costato la condanna a 45 anni nell’operazione ‘Pizza connection’. È morto a 80 anni nel 2004 nel carcere americano del Massachusetts. Il suo patrimonio è stato sequestrato nel lontano 1987, confiscato definitivamente nel 2009. Nel lungo elenco dei beni sottratti al boss c’è anche il “fondo pascolativo” intestato alla moglie Teresa Vitale, ma manca il “fabbricato rurale” adiacente. Un errore di trascrizioni di particelle catastali, che ha innescato una lunga battaglia legale.

Il bene finito nella disponibilità dell’Agenzia dei beni confiscati (Anbsc), è stato assegnato al Comune di Cinisi, che utilizzando dei fondi europei lo ha ristruttorato, affidandolo poi alla onlus della famiglia Impastato. Ma Leonardo Badalamenti, figlio di ‘zu Tano’, dopo essere tornato in Italia, ha presentato ricorso. Nel luglio 2020, la Corte d’Assise di Palermo gli ha dato ragione e “revoca la confisca del fabbricato”. Badalamenti junior, forte della sentenza, si era presentato al casolare, entrando nell’immobile dopo aver forzato la serratura. Il gesto ha scatenato un alterco con Giangiacomo Palazzolo, sindaco di Cinisi, sfociato in reciproche denunce. L’amministrazione ha impugnato l’atto, presentando intanto un’opposizione cautelare al rilascio del bene. A questo punto si creano due procedimenti giudiziari paralleli a Palermo, quello civile davanti al giudice dell’esecuzione, che deve decidere sul rilascio del bene. L’altro penale alla Corte d’Assise, che si deve pronunciare sull’applicazione dell’articolo 46 del codice antimafia, ovvero la “restituzione per equivalente”, cioè un compenso economico agli eredi nel caso in cui il bene sia stato assegnato per finalità pubbliche e sociali.

Lo scorso 17 marzo, il giudice civile Michele Alajmo accoglie il ricorso del Comune sospendendo l’esecuzione del rilascio dell’immobile, in attesa della sentenza della corte d’Assise. Conferma però che i Badalamenti sono i legittimi proprietari, e possono riavere il bene pagando una cifra “non inferiore a 50.693 euro”. La Corte di Assise di Palermo (29 marzo), presieduta dal giudice Vincenzo Terranova, riconosce l’applicabilità dell’articolo antimafia e lascia l’immobile al Comune, che però dovrà versare 71 mila euro ai Badalamenti. I giudici spiegano che il “provvedimento del 2014 della Corte di Assise” avrebbe riparato “l’errore materiale” della particella catastale mancante, rettificando e integrando la “precedente ordinanza del 2007”. Un atto che funge da “confisca ex novo”, perché il bene passa all’Anbsc.

“Siamo soddisfatti, c’erano tutti i presupposti giuridici, per fortuna esiste la norma che prevede la restituzione per equivalente. Ma resta il danno per il Comune che dovrà pagare il bene”, commenta l’avvocato Toni Ruffino, legale dell’amministrazione. “Queste due sentenze sono in conflitto, per il tribunale civile Badalamenti è il proprietario e con 50 mila euro può riprendere il casolare, mentre per la Corte d’Assise il bene resta al Comune che però deve versare 70mila euro ai Badalamenti”, spiega l’avvocato Christian Alessi, difensore degli eredi di Badalamenti.

Due sentenze che differenziano anche sugli importi. Il calcolo del giudice civile (50.683 euro) è il frutto della sottrazione tra il valore del bene nel 2010 (375.400 euro) e il costo della ristrutturazione sostenuta dal Comune (276.600 euro), alla quale vengono tolti ulteriori 48.107 euro per “indennità dell’occupazione”. Quello della Corte d’Assise (71.078 euro) si ottiene partendo dalla stima del bene al momento della confisca del 2014 (316.160 euro) alla quale si sottraggono i lavori di ristrutturazione comunali (255.924 euro), “moltiplicato per il tasso inflazione dall’aprile 2014 a gennaio 2023”. La vicenda però non finisce qui. I legali di Badalamenti sono decisi a presentare ricorso, e solo con la Cassazione si potrà chiudere questa lunga e complessa storia.

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