Sul Delta del Po i pesci nuotano più in alto degli uccelli. La terra è tre metri sotto al livello del mare da quando il suolo è sprofondato. “Quasi due metri in soli nove anni tra il 1957 e il 1966, a causa delle estrazioni metanifere” spiega Toni Caprissio che da sempre vive qui. “È come se ci avessero tirato via il cuscino da sotto la testa e siamo sprofondati”. Le alluvioni non si contavano quasi più. “Vedere l’acqua arrivare dal mare è una cosa impressionante”, racconta con gli occhi lucidi, mentre sfoglia le foto in bianco e nero che ritraggono gli sfollati delle alluvioni. In quella del novembre 1951, una delle più disastrose della nostra storia morirono cento persone e altre 180mila rimasero senza casa. “Dovrebbero vederle quelli che hanno proposto queste cose”. E quando parla di “queste cose si riferisce” alle trivelle. “Non vogliamo rivivere quell’incubo”. Non è il solo a temerlo. Da quando il nuovo governo ha riaperto la strada alle trivellazioni nell’Alto Adriatico si è creato un fronte trasversale contro questo provvedimento. Da destra a sinistra. Ci sono i sindaci, consiglieri regionali e anche un senatore di Fratelli d’Italia. “Non è una questione di partito ma di difesa del territorio” ripetono quasi all’unisono gli amministratori locali. L’oggetto della discussione è il decreto òegge Aiuti Quater che riammette alla produzione le concessioni di gas metano esistenti “previa verifica dell’ assenza di effetti significativi di subsidenza sulle linee di costa”. Una garanzia che non sembra essere sufficiente per l’associazione ambientalista Italia Nostra, che ha scritto un appello al governo e al Parlamento per non convertire in legge il decreto. Nel testo si sottolineano i vantaggi incerti, “inesistenti nel breve periodo”, e i danni certi all’ambiente oltre al “rischio di aggravamento della subsidenza”. Nel testo si parla della riapertura dei pozzi sulla base di “una non meglio precisata verifica dell’assenza, non di subsidenza, ma di effetti significativi di subsidenza sulla costa – scrive Italia Nostra – quasi che l’aggravamento del fenomeno sia in qualche modo accettato come inevitabile, e si tratti di contenerne le conseguenze più gravi”.

La memoria di quello che è successo settant’anni fa è ancora viva e si trasmette di padre in figlio. Edoardo Cacciatori, 29 anni, è nato e cresciuto sul Delta del Po. Da generazioni la sua famiglia naviga su queste acque che una volta erano terra. “Qui dove stiamo navigando negli anni Cinquanta si coltivava” spiega Cacciatori, che lavora come guida ambientale accompagnando i turisti a scoprire questa zona. Una delle tappe è l’isola della Batteria. O meglio, l’isola che non c’è più. Fino al 1957 ci vivevano 25 famiglie. C’era pure la scuola. Poi è stata ricoperta dall’acqua. “Le estrazioni di metano hanno causato la subsidenza e la terra è andata giù”. Una storia recente, come testimoniano le piastrelle dei bagni che si intravedono in uno degli edifici abbandonati. A pochi metri di distanza di intravede ancora il pilone della recinzione e una scavatrice che affiora a malapena. “Questo è quello che ha creato un certo modello di economia – racconta Cacciatori – noi non vogliamo rivivere oggi quella situazione e per questo se qualche ministro vuole venirsi a fare un giro in barca qui da noi gli mostreremo quello che hanno prodotto le estrazioni da queste parti”.

Lo sanno bene anche i pescatori e gli allevatori di vongole che ogni mattina, in migliaia, escono con i loro barchini per raggiungere le acque di semina e di raccolta. Maurizio Varagnolo è uno di loro. “Lavoriamo in un ecosistema delicato. I posti dove si può allevare sono limitati perché sono aree di sabbia con una certa circolazione di acque”. Basta poco per alterare l’equilibrio. La preoccupazione più grande è legata al possibile arrivo delle trivelle. “Se andassero a modificare la profondità degli ambienti dove noi andiamo a lavorare questo significherebbe smettere di allevare – conclude Varagnolo – basta un metro d’acqua in più o mezzo metro e questo va a cambiare l’idrologia di queste aree”. Una preoccupazione condivisa anche dalla segretaria nazionale di Pescagri Marilena Fusco. “Siamo contrari perché il Polesine è una terra già provata e a oggi non abbiamo nessuna dimostrazione tecnica che le trivelle non siano invasive e che non creino fenomeni di subsidenza”.

Non è solo il mondo della pesca a essere preoccupato, c’è anche quello dell’agricoltura. Un settore che nel solo Polesine vale circa 600 milioni di euro all’anno. La Coldiretti Veneto sottolinea la necessità di “studi approfonditi che diano massime garanzie di tutela del territorio”. E il presidente di Cia Rovigo Erri Faccini attacca: “Siamo mortificati nel dover riprendere dei discorsi fatti in passato, quando scelte sbagliate hanno determinato problematiche irreversibili”. Mentre cammina sull’argine di Porto Levante, Faccini mostra la specificità di questo territorio: “Qui a sinistra abbiamo l’acqua, a destra invece vediamo i campi che sono in media tre metri sotto al livello del mare”. Proprio in questi giorni ricorre l’anniversario dell’alluvione del 1951 e dell’ondata di oltre centomila sfollati che migrarono vero il Nord Ovest. “Abbiamo già pagato a caro prezzo quello che è stato il confronto con gli allagamenti – aggiunge Faccini – e non vorremmo che le decisioni di politiche di oggi portassero a ulteriore spopolamento di questi territori”. Il passato riaffiora nella mente di tanti. “Avevo diciott’anni quando, negli anni Cinquanta, Enrico Mattei veniva a promettere che i pozzi metaniferi non avrebbero causato difficoltà invece così non è stato” ricorda Gianni Vidali, ex amministratore e scrittore, che ha vissuto in prima linea le battaglie contro i pozzi metaniferi. “Se oggi il Delta del Po esiste è grazie ai cittadini che lo hanno difeso fermando quei progetti aberranti – conclude Vidali – continueremo a difenderlo come abbiamo fatto in passato. Il governo dovrà passare sulle nostre teste”.