Pubblichiamo la prefazione firmata da Gian Carlo Caselli al libro L’imputato imperfetto di Paolo Intoccia, edito da Solferino (collana Melampo). Dottorando in Studi sulla criminalità organizzata presso la Statale di Milano, Intoccia è autore di un saggio che racconta il processo a Giulio Andreotti. Caselli, come è noto, era procuratore capo di Palermo quando venne celebrato il procedimento al sette volte presidente del consiglio. Accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso, Andreotti venne prescritto in Appello per aver commesso il reato fino alla primavera del 1980, e assolto per il periodo successivo: sentenza poi confermata dalla Cassazione. Il libro sarà presentato sabato 19 novembre alle ore 11 all’università degli Studi di Milano nella Sala Napoleonica di Palazzo Greppi nell’ambito del Bookcity con Nando Dalla Chiesa (che presenterà il suo volume Ostinati e contrari) e i magistrati Alberto Nobili e Alessandra Cerreti.

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Tutti gli imputati sono interessati – ovviamente – a vedere riconosciute le proprie ragioni in sede processuale, ma ve ne sono alcuni preoccupati allo stesso modo, se non più, di vedere soddisfatti i propri interessi. Questi imputati richiedono ai loro difensori non solo un impegno “tecnico” ma anche un aiuto per arginare ciò che può colpire la loro immagine nell’opinione pubblica. Una “committenza forte”, che contiene una richiesta di “aiuto” anche nei rapporti con l’informazione; e nel contempo si accompagna all’organizzazione di una agguerrita “strategia di appoggio” a opera di quanti possano servire alla causa, soprattutto all’interno della classe politica. In modo particolare se nelle aule di giustizia le cose vanno storte.

Su tale versante, le vicende giudiziarie di Giulio Andreotti sono un caso da manuale. Nel libro di Paolo Intoccia esse sono ricostruite con scrupolo: chi vuol sapere la verità dispone ora di uno strumento agile e prezioso, in quanto accessibile a tutti, anche ai non “addetti ai lavori”. In questa introduzione voglio ricordare una cosa soltanto: c’è una sentenza della Corte di Cassazione che conferma in via definitiva quella della Corte d’Appello di Palermo, nella quale si dichiara l’imputato, senatore Andreotti Giulio, responsabile del delitto di associazione per delinquere con Cosa Nostra per averlo commesso (commesso!) fino al 1980.

Ebbene, a dimostrazione della “committenza forte” di cui ho appena detto si staglia innanzitutto l’incredibile show di Giulia Bongiorno, difensore di Andreotti: in pubblica udienza il presidente della Corte d’Appello di Palermo legge il verdetto (dieci righe di dispositivo); l’avvocato Bongiorno lo ascolta insieme a tutti i presenti; perciò ascolta anche le univoche parole, “reato commesso fino al 1980“, che il verdetto contiene; e tuttavia, in mezzo a una folla di microfoni e telecamere, raggiante di felicità, urla a piena gola in un telefonino (collegato con il suo cliente) tre parole: “Assolto! Assolto! Assolto!”; dimenticando, con spregiudicata disinvoltura, le parole univoche – “reato commesso fino al 1980” – appena sentite pronunciare.

Ecco che la verità del processo Andreotti comincia a essere sapientemente esorcizzata, stravolta, cancellata; persino nelle riviste giuridiche, dove si pubblica di tutto e di più: in esse, con pochissime eccezioni (di quelle che si contano sulle dita di una mano), non vi è traccia delle sentenze del “caso Andreotti”.

I fatti, meticolosamente elencati e provati per pagine e pagine di motivazione nelle sentenze d’Appello e di Cassazione, sono sconvolgenti perché riguardano, tra l’altro, il “contubernio” fra mafia e politica. Sarebbe stato lecito – come minimo – attendersi riflessioni, dibattiti, confronti, analisi. Sarebbe stato opportuno chiedersi cosa mai sia successo davvero in quella stagione. Su che cosa si sia basato – almeno in parte – il meccanismo del consenso nel nostro Paese.

Niente di tutto questo. Si è cercato soltanto di stravolgere i fatti; e a farlo è stata una folla di personalità diverse (sia pure con lodevoli eccezioni): leader politici, illustri opinion makers, finanche vertici istituzionali. E’ stata una corsa – divulgata a ogni passaggio – alle pubbliche e stucchevoli congratulazioni o attestazioni di stima. La macchina della “strategia di appoggio” ha funzionato alla grande.

Tra i politici, il massimo dell’impudenza lo ha raggiunto il presidente della Commissione parlamentare Antimafia Roberto Centaro che, all’indomani della sentenza della Corte d’Appello, ha dichiarato pubblicamente che il “tentativo di condanna, o di attribuzione di mafiosità” ad Andreotti è stato “malamente sbugiardato [corsivo mio] dalle pronunce giurisdizionali”. La verità fatta a brandelli, come se Centaro vivesse in un altro mondo e avesse visto un altro processo.

Ma in dissidio coi fatti sono intervenuti altri importanti protagonisti della politica italiana: da Francesco Cossiga, presidente emerito della Repubblica, al presidente del Senato Marcello Pera, al presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, fino a Clemente Mastella, ministro delle Giustizia, secondo cui “invece di parlare del processo, ad Andreotti bisognerebbe fare un monumento”. E la sinistra non è stata da meno. Una forza politica che ha sempre fatto della “questione morale” un punto (apparentemente) fondante, non dico che della vicenda dovesse farne una bandiera, ma quanto meno discuterne. Invece l’ha a dir poco rimossa.

In ogni caso Mastella è stato ampiamente soddisfatto. Alla vicenda processuale è seguito un incontrastato processo di santificazione mediatica di un senatore a vita (sette volte presidente del Consiglio!) colluso con la mafia fino al 1980 ma fatto allegramente passare per un perseguitato, vittima di un complotto, di una montatura politica, di una persecuzione decennale, di un doloroso calvario che ha dovuto faticosamente percorrere. Il tutto sotto la sapiente e sottile tessitura dello stesso Andreotti. Esaminare al rallentatore la sua regia processuale ed extraprocessuale è persino suggestivo.

Ha cercato ed è riuscito – certamente grazie alla connivenza di molta politica e di molta informazione – a far passare in secondo piano i gravi fatti evidenziati dal processo, fino a cancellarli. Ha esibito sè stesso in mille circostanze, su un’infinità di media, cerimonie e manifestazioni, così rivitalizzando il profilo di un grande statista di prestigio internazionale, apprezzato da molti (Vaticano in primis). Fino a sfiorare la nomina alla presidenza del Senato (2006), per poi essere designato a rappresentare l’Italia ai funerali di Boris Eltsin (2007). Senza disdegnare, nel contempo, incursioni da star nel dorato mondo della pubblicità, non solo facendo il testimonial della famiglia per la Chiesa cattolica, ma addirittura prestandosi, al fianco di una procace attrice, a promuovere una marca di cellulari.

Il risultato è stato una sorta di dilagante giudizio parallelo, nel quale il senatore ha cercato – riuscendoci – di offrire di sé un’immagine di alto profilo incompatibile con le bassezze processuali rimestate da piccoli giudici. Anzi – verrebbe da dire – dentro le quali grufolavano piccoli giudici. Una strategia che ha pagato perché ha trovato una miriade di sponde che hanno stravolto la verità, massacrando la logica e il buon senso.

Con una conseguenza e una constatazione. La prima è che parlare di assoluzione, anche a fronte delle gravissime responsabilità provate fino al 1980, non è solo uno strafalcione tecnico. Significa in realtà legittimare (per il passato, ma pure per il presente e per il futuro) una politica che contempla anche rapporti organici col malaffare, persino mafioso. Per poi stracciarsi le vesti se non si riesce – oibò! – a sconfiggere la mafia. La constatazione è che la “falsificazione” dell’esito del processo è funzionale alla delegittimazione non solo della Procura di Palermo, che il sottoscritto ha chiesto di dirigere dopo le stragi del 1992, ma anche di coloro che ancora continuano a considerare doverose le indagini nei confronti di tutti, anche se potenti e protetti.

Sta di fatto, comunque, che la maggioranza dei cittadini italiani, in nome dei quali le sentenze vengono pronunziate, crede ancora oggi che Andreotti sia stato “assolto“. Il popolo in sostanza è stato truffato: benvenuto dunque il libro di Paolo Intoccia, perché fornisce – a chi lo voglia – ampio materiale di riflessione, al di là delle interessate fake news. Merita davvero di essere letto.

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