Oggi non ci sarà alcun inizio delle lezioni, sarà la solita finzione, la consueta fiction. Perché dobbiamo avere l’onestà di dirlo, anzi di urlarlo: la scuola italiana è morta. Credevo che la pandemia potesse darci l’occasione per migliorare; per vedere mai più lezioni frontali; per far nascere ovunque esperienze di scuola diffusa come a Reggio Emilia; per fare finalmente anche nel mondo della scuola riunioni tra 200 docenti online o colloqui online senza far perdere ore di lavoro ai genitori. Credevo che finalmente, le lezioni diventassero 2.0; che i bambini e i ragazzi fossero davvero partecipi nella scuola (perché non possono far parte, già alle medie, di un consiglio d’istituto?). Credevo che nascessero come funghi esperienze di aule e scuole all’aperto; che ci fosse in ogni aula o quasi un impianto di ventilazione meccanica e un medico a disposizione degli istituti. Mi illudevo di questo e di tanto altro. Non è andata così.

Sia chiaro, lo dico per evitare le solite telefonate o i soliti commenti dei pochi presidi o dei tanti (ma non la maggioranza) colleghi che a fatica sperimentano, innovano: le eccezioni ci sono ma in quante delle 366.310 classi la cattedra non è al centro? Quanti dei 7.286.151 alunni italiani avranno un’aula all’aperto? La rete che funziona? Un tablet in mano? O più semplicemente la possibilità di giocare a calciobalilla durante l’intervallo? Quanti dei 290.089 alunni disabili avranno – come legge vuole – un insegnante specializzato? Basta, non raccontiamoci più balle. Non venitemi a dire “ma io qui faccio questo”. Non è più tempo dei localismi ma di vedere la globalità della situazione.

Stamattina Marco, Mattia, Sofia, Fatima, Irina, Carolina, Kaur non cominceranno proprio un bel nulla. Saranno tutti “ripetenti” perché ripeteranno la trama di sempre in una scuola che è stata ammazzata. Chi l’ha uccisa? Non diamo solo la colpa alla politica. Certo: al 2020, anno che ha visto un incremento temporaneo dei finanziamenti a livello europeo, a causa della pandemia Covid 19 e la necessità di sostenere la continuità educativa il nostro paese ha destinato il 4,3% del Prodotto interno lordo all’istruzione, a fronte di una media europea del 5%. Una percentuale che era scesa nel periodo pre Covid 19 sotto al 4%, e che, come previsto dal Documento di economia e finanza (Def), anche in conseguenza del minor numero di studenti stimato negli anni futuri, diminuirà ulteriormente a 3,5% nel 2025 e si stabilizzerà a partire dal 2030 a 3,4%.

Ma preso atto di questo, di là della flebile voce del sindacato (che tentano di zittire), qualcuno ha protestato? Conoscete qualche preside che è sceso in piazza davanti a palazzo Chigi? Conoscete qualche docente che quando si ritrova senza computer o senza il collega di sostegno protesta? Alza la voce? Semmai i primi si lamentano in qualche collegio docenti e i secondi nei corridoi o la sera a casa con i mariti o le mogli. A uccidere la scuola sono stati, in primis, i dirigenti scolastici, grandi amanti della burocrazia e poco della pedagogia (chi la conosce) complici della distruzione con il loro silenzio. Un esempio che vale per tante altre cose: per oltre un anno lo Stato ha inviato mascherine che nessun bambino ha indossato, le famose mascherine mutanda. I presidi, pur sapendo che non venivano indossate, le distribuivano zitti zitti. “Facevano il loro dovere”, dicevano. Poi hanno iniziato ad ammucchiarle nei corridoi, negli atri ma nessuno (a parte la dirigente Amanda Ferrario e forse pochi altri: segnalatemeli) ha chiamato l’ufficio del Commissario per fermare questo enorme spreco di denaro e danno ambientale.

A uccidere la scuola sono anche molti insegnanti servi ubbidienti di un sistema che è andato alla deriva senza che qualcuno abbia tentato di fermare la valanga. L’ha uccisa chi è entrato in classe ad appiccicare schede e schede sui quaderni per dimostrare quanto lavora (vedi La pedagogia della lumaca di Zavalloni); l’ha uccisa chi ha addestrato i ragazzi a fare i quiz Invalsi, li ha somministrati e poi dei risultati nazionali – e non solo locali – se n’è fregato per perpetuare anche quest’anno la stessa cosa (“io faccio il mio dovere. Perché andare contro il preside? Tanto…”); l’ha ammazzata chi è passato dai voti numerici al “base, intermedio e avanzato” senza farsi troppi problemi (“io faccio il mio dovere”); l’ha uccisa chi grazie al Covid ha approfittato per fare meno uscite didattiche; l’ha sterminata chi ogni giorno fa lezione di storia, di scienze, di matematica senza preoccuparsi se Karim capisce (“Noi intanto lo accogliamo”…sulla sedia a far nulla); l’ha resa agonizzante chi entra ogni giorno in classe e da anni insegna come può, quel che sa, qualsiasi disciplina senza mai professionalizzarsi, come se insegnare ai bambini di sei fosse uguale (soprattutto oggi) ai bambini di dieci: come se insegnare educazione civica sia una cosa che possono far tutti perché i cartelli stradali e il non buttare la carta nel vetro lo sanno tutti insegnare. E poi il 27 gennaio è sufficiente parlare un po’ degli ebrei ammazzati (dimenticando rom, omosessuali, malati di mente, handicappati, deportati politici).

L’ho uccisa anch’io quando, sopraffatto dalla burocrazia, non ho riflettuto a sufficienza sul senso dell’educare; quando stanco dell’ennesimo corso di formazione obbligatorio inutile, mi sono assuefatto; quando sentendomi solo, abbandonato dallo Stato e da chi lo rappresenta nella mia scuola, mi sono arreso agli sfoghi da leone da tastiera. Ma oggi, 12 settembre, 2022 la scuola è morta.

Non ho più alcuna speranza razionale perché nonostante sia defunta, complice la campagna elettorale, qualcuno dirà che sta benissimo. Mi tornano in mente le parole di Seneca: “Che cosa, dunque, è bene? E’ la conoscenza della realtà. E il male? ‘L’ignoranza’”. Dobbiamo ripartire dalla realtà. Ora serve solo il miracolo: credere nella resurrezione della scuola che può avvenire solo se ciascuno (dal genitore al bidello all’insegnante al preside al sindaco) sceglierà di prendere atto della realtà e cambiarla.

Un preside qualche giorno fa mi ha detto: “A me interessa farla funzionare”. Io gli ho risposto: “A me interessa cambiarla”. Ecco la differenza. “Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”, diceva Paolo Borsellino. Mi permetto di usare le stesse parole: “La scuola italiana non mi piace, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”.

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