Tra la seconda metà degli anni ’80 e i primi anni ‘90 del XX secolo l’Europa colse l’importanza della sfida climatica prima del resto del mondo. In quel periodo, con il secondo e terzo programma quadro, la Commissione europea finanziò generosamente i più importanti studi scientifici in materia, spinta soprattutto dagli studiosi inglesi e tedeschi. E nonostante lo scetticismo della maggioranza dei colleghi italiani che, per fortuna, valevano ben poco in sede europea per via del noto criterio italiano di scelta dei propri rappresentanti.

L’Europa aveva tutto il tempo di prepararsi, quindi. Non lo ha fatto, invece. Per nulla o troppo poco. L’estate bollente del 2022 ha dimostrato l’impreparazione di fronte alla sfida delle prolungate ondate di calore. È l’ovvia conclusione che emerge dal bilancio delle vittime, finora provvisorio: più di duemila in Spagna e Portogallo, quelle che emergeranno dai dati di Francia, Regno Unito, Belgio e Paesi Bassi e di gran parte del Centro ed Est-Europa, dove la persistenza del caldo si è a lungo protratta. L’Europa ha palesato tutta la sua impreparazione quando, di fronte ai massicci incendi che si sono diffusi in Francia, Spagna, Grecia e Portogallo, invece di schierare ulteriori aerei antincendio, l’Unione europea era in trattative per acquistarli. L’impatto dell’ondata di caldo sull’economia è stato accolto con stupore, se non incredulità. Energia, trasporti e infrastrutture tecnologiche non si sono rivelate capaci di funzionare regolarmente a temperature che superano i 40 gradi centigradi.

La gravità dell’ondata di caldo è stata accolta come una novità ma era largamente prevista: quante volte gli studiosi del clima avevano avvertito del pericolo? Il caldo torrido non è uno strano accidente ma un comportamento estremo che si presenterà sempre più frequentemente. Se il copione era noto, la risposta e le precauzioni che i governi adottano – o non adottano – spiegano la numerosità delle vittime e determinano il livello di disgregazione della società e dell’economia. Al massimo livello decisionale i governi europei semplicemente non riescono a pianificare adeguatamente le misure per fare fronte a un pianeta più caldo. Se (quasi) tutti i paesi dell’Unione europea hanno prodotto piani nazionali per far fronte al cambiamento climatico, sono soltanto montagne di carta, spesso inutile.

E, soprattutto, non sono stati finanziati adeguatamente. In teoria ogni paese membro è tenuto a comunicare quanto spende per l’adattamento climatico attivo, sia nel totale sia nei diversi settori. In pratica l’analisi dei loro rendiconti mostra come 20 paesi su 27 forniscano dettagli limitati sui loro piani di spesa, ovvero non riportino alcun dettaglio. Non sono i terremoti, le alluvioni o i tornado la maggior causa di mortalità europea in seguito alle catastrofi naturali. Negli ultimi quattro decenni, l’Agenzia europea dell’ambiente ha stimato un numero spaventoso di vittime da caldo, una moltitudine di individui, compresa in una forchetta statistica stimata tra e 76 e 128 mila persone.

E la mortalità più elevata non è stata quella italiana o spagnola ma quella tedesca. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, meno della metà dei 27 paesi dell’Unione europea ha piani d’azione per gestire gli impatti del caldo estremo sulla salute; e tra quelli che lo hanno, più della metà non li finanzia in modo sufficiente. Dopo l’ondata di caldo mortale nel 2003 alcuni paesi avevano iniziato a muoversi. La Francia aveva adottato il cosiddetto plan canicule per allertare e proteggere meglio i residenti; molte delle autorità municipali francesi hanno registrato i loro cittadini più vulnerabili, affinché possano mettersi in contatto con i sanitari e ricevere consigli adeguati in prossimità di un’ondata di caldo.

Altri paesi, come la Germania, hanno parlato molto e fatto assai poco, come ha dimostrato la lenta e farraginosa risposta agli incendi diffusi del nord-Reno Vestfalia: la lezione della Grecia, capace di mobilitare in Attica 15 velivoli a 26 minuti dallo scoppio di un incendio non è stata seguita. Nel 1994 scrissi che “riaggiustamenti del contesto urbanistico, agricolo e industriale, condotti in previsione di un aumento del rischio climatico, possono, se non prevenire, almeno ridurre (forse anche in modo consistente) l’impatto negativo del cambiamento climatico” (Effetto serra: istruzioni per l’uso, 1994). L’Europa predica bene ma razzola maluccio. Raramente, le politiche agricole, forestali e territoriali hanno inserito tra le variabili decisionali l’impatto del riscaldamento globale scala regionale e locale.

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