di Andrea Di Turi

“Quando è troppo è troppo”: ha detto così il cardinale Czerny, Prefetto del Dicastero del Vaticano per il Servizio dello sviluppo umano integrale. Qualche settimana fa, alla conferenza stampa per la Giornata Mondiale di Preghiera per la cura del creato (si celebrerà l’1 settembre), il cardinale si riferiva al fatto che nonostante decenni di allarmi lanciati dalla scienza si continua con progetti di ricerca ed estrazione di combustibili fossili che “accelerano la nostra corsa verso il baratro”. Come quello appena “festeggiato” – sigh – da quasi tutti i media italiani (alla faccia della transizione ecologica!) che ha visto Eni protagonista della scoperta di un nuovo, immenso giacimento di gas al largo di Cipro.

La scienza è inequivocabile: non è possibile centrare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi (1,5-2° C di aumento delle temperature medie terrestri entro fine secolo rispetto all’era pre-industriale) se non abbandoniamo le fossili. Ma il mondo prosegue in direzione ostinata e contraria. E allora, siccome se c’è una questione che va affrontata tutti insieme è proprio quella della crisi climatica, è stata lanciata un’iniziativa per arrivare a un Trattato di non-proliferazione delle fonti fossili (@FossilfuelTreaty sui social), modellato sul Trattato di non-proliferazione nucleare.

L’equazione è semplice: le fonti fossili, il cui utilizzo è di gran lunga il principale responsabile del riscaldamento globale e dell’emergenza climatica, sono le “armi nucleari” della nostra era. Vanno neutralizzate, se vogliamo guardare al futuro. Se vogliamo avere un futuro.

Come? Il #FossilfuelTreaty si basa su tre pilastri, gli stessi del Trattato sul nucleare:

1) non-proliferazione: stop immediato a esplorazione e ricerca delle fossili. Con le parole del cardinale Czerny: “Tutte le nuove esplorazioni e produzioni di carbone, petrolio e gas devono cessare immediatamente”;
2) graduale eliminazione della produzione attuale (ad esempio limitando l’estrazione, eliminando i sussidi alle fossili);
3) giusta transizione: non lasciare nessuno indietro, in primis i Paesi e le comunità che basano largamente la loro economia sullo sfruttamento delle fossili.

Utopia? Sembrava utopia anche per il nucleare cinquant’anni fa. E poi parlare di utopia svia dal problema. È, come sempre, una questione di volontà politica: devono muoversi i parlamenti, i governi, gli Stati. E devono farlo insieme. Ci vorrà tempo, ovviamente. Ma se non si parte, non si arriva.

L’iniziativa del #FossilfuelTreaty è nata due anni fa, in sordina, poi è stato un crescendo. Sostengono il Trattato il Dalai Lama e 101 Premi Nobel, oltre 300 parlamentari di mezzo mondo, più di sessanta città (le ultime sono state due capitali, Londra e Lima) e governi regionali, migliaia di scienziati e accademici. E poi medici e operatori della sanità, leader religiosi, attivisti di movimenti per l’ambiente (Fridays for Future, Parents for Future, Extinction Rebellion). Manca ancora il primo Stato, potrebbero essere le Hawaii.

In Italia? Anche da noi non mancano le adesioni. Si può aderire individualmente, come organizzazione, come impresa. Ma manca la politica. Solo quattro parlamentari italiani hanno aderito, uno del Parlamento italiano e tre in Ue, nessuna città. Il 22 giugno alla Camera dei Deputati si è tenuto il primo evento istituzionale in Italia sul #FossilfuelTreaty, che ho avuto il piacere e l’onore di moderare. Smuoverà le acque? Se ne parlerà in campagna elettorale? Chi parla di transizione ecologica, se è serio, dovrebbe farlo.

Al #FossilfuelTreaty ha però aderito il Vaticano: “Dà grandi speranze di integrare e rafforzare l’Accordo di Parigi”, ha detto il cardinale Czerny. Il Vaticano c’è. L’Italia?

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