Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

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“Fu lo stagnino di Cesenatico che di nome faceva Marcello Faccini a insegnarmi nelle giovanili l’arte della marcatura, quando a quei tempi ti dicevano soltanto di stare incollato all’avversario. Mi spiegò che i riferimenti per il difensore devono essere tre: il pallone, l’uomo e la porta. Quando sono diventato allenatore, raramente ho trovato le marcature eseguite in maniera corretta, anche nei club più importanti della Serie A”.

Partendo da una carriera di calciatore professionista inesistente, anche per colpa della tubercolosi presa da ragazzo, Alberto Zaccheroni nella massima serie ha allenato Milan, Juventus, Inter, Udinese, Torino e Lazio. Con i rossoneri ha vinto uno scudetto nel 1999.
“Mi sono portato dietro quegli insegnamenti e li ho trasmessi ai miei giocatori, aggiungendo di mio un quarto punto cardine, cioè la linea di difesa, visto che nel frattempo avevo iniziato a praticare il gioco a zona. La posizione di partenza del difensore deve essere corretta perché gli permette di arrivare in tempo: venti centimetri avanti o venti indietro cambia tutto. Anche quando giocavo con tre attaccanti sono sempre intervenuto di più sulla difesa e tutti i miei difensori sono testimoni di quanto ho rotto loro le scatole. Faccini è deceduto prima che arrivassi ad allenare le grandi squadre. Ma le conoscenze di un idraulico, che da giovane aveva fatto il centravanti, in qualche modo sono arrivate anche al Milan e alle grandi che ho allenato”.

Quando è passato al gioco a zona?
“Io da ragazzo ho conosciuto solo il gioco a uomo, ma faccio fatica a dire di aver giocato a calcio. Perché capitava che arrivavo al 90esimo minuto, seguendo l’avversario e senza aver toccato un solo pallone. La zona inizialmente non mi convinceva, temevo che su una palla alta un mio giocatore di un metro e settanta potesse trovarsi a difendere su un avversario venti centimetri più grande. Poi mi decisi guardando gli altri campionati e il Milan di Sacchi in tv. Dopo aver vinto il campionato di Quarta Serie con il Baracca Lugo passai alla zona nel 1989: con le qualità tecniche che avevamo a centrocampo, saremmo stati favoriti da questo modo di giocare. Avevo contro non solo il presidente ma anche i calciatori, che vogliono sempre continuare per la strada che gli ha permesso di vincere fino a quel momento”.

Come riuscì a convincerli?
“In ritiro i ragazzi erano nervosi e poco disponibili al cambiamento. Così, dopo un’amichevole precampionato finita in rissa, li radunai sul cerchio del centrocampo e dissi loro: manca un mese all’inizio della stagione ufficiale, in campionato giocheremo a uomo ma nelle prossime settimane proveremo la zona. Impariamo l’arte e mettiamola da parte, insomma. Il mio fu un compromesso e alla fine funzionò. Mi seguirono”.

Un altro snodo importante della sua carriera è stato all’Udinese dove riuscì a portare i bianconeri ad uno storico terzo posto in campionato ed elaborò un modulo innovativo, soprattutto per la serie A di fine anni Novanta dove il 3-4-3 non lo utilizzava nessuno. In quel caso come riuscì a convincere i suoi giocatori?
“A Udine successe quello che era accaduto a Lugo di Romagna. I miei erano restii a passare ad un modulo che allora non era in uso, perché il 3-4-3 del Barcellona di Cruijff aveva il centrocampo a rombo, mentre quello dell’Udinese era in linea. Nel 1996 arrivò Amoroso, io avevo già Bierhoff e Poggi: nella mia carriera ho sempre cercato di mettere in campo i migliori nel loro ruolo ideale. Ma anche qui i calciatori non volevano fare esperimenti, preferendo vivere nelle loro certezze. Dissi loro: prepariamo il 3-4-3 solo per usarlo nell’ultima mezz’ora delle partite in cui siamo in svantaggio. Io vivo di convinzioni, non di certezze e so fare un passo in avanti ma anche uno indietro. Quando mettevo la terza punta, la squadra andava decisamente meglio, ma i difensori ancora cercavano alibi”.

Poi cosa accadde?
“Succede che in casa della Juve dopo pochissimi minuti rimaniamo in dieci e invece di togliere una punta giochiamo con i tre dietro. Vincemmo 3-0 in casa della capolista. Una settimana dopo a andiamo a Parma, che era uno squadrone. In settimana preparo entrambi i moduli e quando alla domenica mattina in sala riunioni dissi che avrebbe giocato Poggi con Amoroso e Bierhoff tutti fecero un sospiro di sollievo. Ormai erano convinti, vincemmo ancora e lì nacque il 3-4-3”.

E in Giappone come è stato rapportarsi con i calciatori della Nazionale con cui ha vinto una Coppa d’Asia nel 2011?
“C’è meno individualismo che in Europa, si ragiona di più in funzione del collettivo. È stato molto semplice: io mi sono messo a disposizione, come faccio sempre, perché il mio calcio è quello dei miei calciatori. Non avevo tre attaccanti che facevano la differenza e quindi giocavamo con il 4-2-3-1. Sono riuscito a trasmettere le mie conoscenze e la mia esperienza, i giapponesi sanno ascoltare. Solo una cosa non sono riuscito a far passare e infatti mi sono dimesso appena finito il Mondiale del 2014. Venivamo da un premondiale eccellente e volevo che ce la giocassimo con tutti, Brasile compreso, con sfacciataggine. Invece non riuscimmo a tirare fuori la nostra solita effervescenza”.

È stato difficile lasciarsi?
“Quanto abbiamo pianto! Dirigenti e giocatori lo hanno fatto nel momento in cui ho comunicato la decisione. Durante il volo di ritorno in Giappone abbiamo continuato a piangere. Nessuno di loro è andato in vacanza per accompagnarmi nuovamente in aeroporto con le lacrime: una volta in volo verso l’Europa, l’aereo mi ha tributato un lungo applauso che mi commosse di nuovo. Una gratificazione che nemmeno i risultati sanno dare. Il Giappone manca a me e io manco ai giapponesi”.

Ha allenato per un breve periodo anche in Cina.
“Siamo ancora distanti da un calcio di un certo livello. A 24 anni un giocatore è considerato giovane. Essendo pochi i calciatori bravi, i presidenti, che hanno disponibilità economica, fanno di tutto per tenerseli anche a discapito dell’allenatore”.

L’ultima sua esperienza in panchina si conclusa tre anni fa con la Nazionale degli Emirati Arabi Uniti.
“Il calciatore emiro non ha ambizione. Sta talmente bene anche economicamente, che per lui vincere o perdere non cambia niente. È un peccato perché ci sono giocatori incredibili. Omar Abdulrahman è un calciatore che a livello di talento in Italia ce lo sogniamo”.

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