Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

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“In famiglia il vero maestro è stato mio papà Guerrino, che insegnava alle elementari e per un anno scolastico ha avuto anche me come allievo. Da giovane aveva giocato in serie C con il Pieris, poi è diventato l’allenatore della squadra del paese e finché non mi sono trasferito a Ferrara è stato il mio mister”.

Fabio Capello, uno dei tecnici più vincenti del calcio italiano, ha trovato in casa il suo primo allenatore.
“Altri tempi. La squadra aveva in tutto tre palloni e le maglie erano quelle blucerchiate regalate dal fratello di mia madre, il giocatore della Sampdoria Mario Tortul. Guerrino insegnava ai ragazzi le basi per giocare bene al pallone: come calciare, come si salta di testa…”.

Poi a 15 anni il trasferimento alla Spal?
“Qui trovo Giovan Battista Fabbri, un grande allenatore che a livello giovanile mi ha insegnato moltissimo. Cose che poi ho cercato di trasmettere anch’io ai miei calciatori, anche in prima squadra. Per esempio che per fare gol bisogna arrivare di corsa davanti alla porta, se stai là fermo in area fai molta più fatica”.

Alla Spal c’era anche Edy Reja.
“L’amico di una vita, abbiamo vissuto per tre anni nella stessa famiglia a Ferrara. Lui sta ancora lottando in panchina, gli ho fatto da poco i complimenti per i buoni risultati che sta ottenendo con la Nazionale albanese”.

E a lei manca la panchina adesso che ha 75 anni?
“La panchina ti esalta e ti stressa. Un allenatore quando sta senza, sente subito la mancanza anche della tensione che si prova. Ma io ormai ho concluso la mia carriera, ad una certa età bisogna lasciare perdere. Preferisco fare l’opinionista in tv, controllando dallo studio se certe cose in campo vengono proposte come piace a me. Per il resto faccio il pensionato”.

Ha tempo per dedicarsi alle sue passioni.
“Arte e vino. Da giovane andavo a fare le sabbiature a Grado, c’erano Reja, Galeone, Gigi Riva e tanti altri calciatori. Allora bevevo vino bianco del Friuli, che vale sempre la pena di tenere in considerazione, soprattutto con il pesce. Negli anni ho scoperto i rossi piemontesi e trovo insuperabile il passito di Pantelleria. Bisogna vivere tutte le regioni d’Italia, assaporandone i sapori della terra”.

Anche dall’esperienza spagnola ha imparato in fatto di vini?
“Certo, apprezzo molto il Ribera del Duero, un vino prodotto nella zona dell’alta valle del Duero. È più vicino al gusto italiano, toscano soprattutto. Il vino della Rioja non mi entusiasma, ma ce ne sono di buoni”.

Altri maestri?
“Ho avuto Helenio Herrera alla Roma. Era avanti di decenni, certi esercizi in allenamento li vedo fare ancora oggi. Poi Liedholm, una grande personalità che si esprimeva senza urlare”.

Lei invece con alcuni suoi calciatori ha avuto duri scontri.
“Io non porto mai rancore. Con Gullit ci siamo scontrati e ora siamo amici. L’allenatore e il calciatore devono rispettare il loro ruolo. Io sono l’allenatore e faccio delle scelte per far vincere la squadra, tu sei il giocatore e devi dare il massimo per il gruppo e per te stesso”.

Dopo le esperienze da allenatore nelle giovanili del Milan, è il secondo di Liedholm e lo sostituisce nelle ultime giornate di campionato portando i rossoneri alla qualificazione in Coppa Uefa. Un’esperienza come manager nella Polisportiva Mediolanum e Berlusconi nel 1991 la chiama a sorpresa per sostituire Arrigo Sacchi.
“All’inizio percepii la diffidenza da parte dei calciatori. Loro avevano vinto tutto ed io ero fuori da quel mondo da anni. Ma è stato semplice ottenere la loro fiducia. Dissi che credevo in loro. Non erano finiti, anche se qualcuno pensava il contrario. Sapevo che insieme avremmo potuto dettare leggere ancora a lungo”.

In campo cosa fece?
“Non stravolsi il lavoro di Sacchi, un uomo che ha dato una svolta al calcio italiano. Ma gli avversari ormai avevano capito il suo modo di giocare, riuscendo ad evitare il suo fuorigioco, e infatti a livello nazionale vinse un solo scudetto. Il mio fuorigioco era meno sistematico e più basso, davanti alla difesa mettevo sempre due centrocampisti centrali”.

Si godette poco Marco Van Basten?
“Purtroppo sì. Con lui in campo sarebbe stato tutto più facile”.

E poi anche Ronaldo, il fenomeno, al Real Madrid.
“Lo ebbi nella sua fase calante, pesava 94 chili e non aveva più voglia di lavorare. Chiesi alla società che fosse ceduto. Ma è stato il più forte giocatore che ho allenato in carriera”.

Alla Juve invece ha avuto Ibrahimovic.
“L’avevo richiesto espressamente io. Aveva la personalità dei giovani che vogliono arrivare. Alcuni miei consigli lo hanno migliorato tecnicamente”.

Un errore che le è costato caro?
“Con il Milan dovevamo giocare l’Intercontinentale a Tokyo con il San Paolo. La società mi informò che Savicevic era squalificato, allora dissi a Raducioiu che avrebbe giocato lui. Poi poche ore prima del match scoprimmo che in realtà il montenegrino poteva essere schierato. Ma io per rispetto dei giocatori non cambiai formazione. Raducioiu quell’anno aveva fatto belle partite, ma Dejan per noi era molto importante ed essendo uno straniero non si poteva portare nemmeno in panchina. Perdemmo, sbagliando alcuni gol. Sono stato corretto con Raducioiu, ma abbiamo perso la coppa”.

Roma, Juventus, Milan. È stato protagonista con questi club sia da calciatore che da allenatore.
“Un caso. Perché all’Inter sono stato vicino più volte. Mi voleva Herrera quando ero alla Spal, ma il presidente Mazza aveva paura di retrocedere e non mi vendette. Anche da allenatore sono stato più volte contattato senza che si concretizzasse mai il passaggio”.

E quel trasferimento discusso dalla Roma alla Juventus da allenatore?
“Dissi che non sarei mai andato alla Juve, ma le cose cambiano. In ogni caso un allenatore non può stare più di cinque anni nella stessa squadra”.

Nei club ha vinto moltissimo, più sfortunato nelle Nazionali.
“Da calciatore ho partecipato al Mondiale in Germania nel 1974. Avevamo una squadra forte. Ma quando ci consegnarono le maglie si disgregò tutto, ci fu una battaglia nord-sud perché i giornali avevano interpretato i numeri sulle magliette come un segnale per la titolarità di alcuni”.

Da allenatore dell’Inghilterra le cose non sono andate meglio.
“L’arbitro non vide il gol regolare di Lampard negli ottavi contro la Germania. Sarebbe stato il 2-2 e in quei casi di solito la gara subisce una svolta. Invece siamo usciti dal mondiale sudafricano”.

Poi diventa ct della Russia.
“La porto ai mondiali dopo 12 anni. Avevo un portiere bravo ma fece una paperotta che ci costò cara. Da allenatore delle Nazionali con i portieri non sono mai stato fortunato”.

A quella azzurra è mai stato vicino?
“Mi venne proposta quando era presidente Tavecchio. Io ero senza contratto e non accettai perché non mi sembrava il momento adatto. Non so quanti avrebbero fatto la mia stessa scelta”.

Come è andata in Cina?
“Io sono un viaggiatore e l’esperienza di 11 mesi è stata molto interessante. Mi chiamò Walter Sabatini perché la squadra era in zona retrocessione, poi alla terza partita del campionato successivo diedi le dimissioni. Con la panchina sentivo di avere chiuso”.

Capello era un risultatista, non un giochista.
“Sono etichette che non valgono nulla. Tutti vogliono giocare per vincere. Chi dice che cerca in primis il bello, dice la bugia più grossa che si possa dire”.

Ma quand’è che un allenatore è bravo?
“Quando riesce a impostare un sistema di gioco adatto ai calciatori che ha. Quando riesce ad esprimere le idee che ha in testa. Quando valorizza il materiale che ha in casa. Quando ha la personalità per gestire i giocatori di livello”.

Sta girando una foto nel web e nei social nella quale si vede un insospettabile Dino Zoff mentre balla scatenato. Non è che ora ne salta fuori anche una di lei in discoteca?
“A quella festa scudetto c’ero anch’io! Abbiamo ballato tutti fino al mattino, alla Juve quando si festeggiava per qualcosa lo si faceva per bene”.

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