C’era da fare la guardia alla bara di Giovanni Falcone. Lo chiamano picchetto d’onore ed è stato quel giorno che Nino Di Matteo ha dovuto indossare la toga per la prima volta in vita sua. “Dopo aver realizzato il sogno di vincere il concorso in magistratura, io ed altri giovani colleghi siamo stati subito proiettati nella dimensione della tragedia”, racconta il magistrato in un’intervista a Fq Millennium. Consigliere togato del Csm, per 25 anni Di Matteo ha indagato sui legami oscuri tra Cosa nostra e pezzi dello Stato. Un connubio tentacolare sullo sfondo delle bombe del ’92 e ’93, sul quale Di Matteo ha concentrato il suo lavoro da sostituto procuratore prima a Caltanissetta, poi a Palermo e infine alla procura nazionale antimafia. Quasi una carriera intera passata sotto scorta, segnata dalle minacce di morte di Totò Riina, dal piano per ucciderlo che – secondo alcuni pentiti – era stato ordinato da Matteo Messina Denaro, dagli scontri senza esclusioni di colpi con i più alti livelli istituzionali, all’epoca dell’indagine sulla Trattativa. Una carriera che comincia proprio nel day after dell’Attentatuni, quando gli uditori del palazzo di giustizia di Palermo risposero alla richiesta di Paolo Borsellino: bisognava allestire la camera ardente per le vittime della strage di Capaci. Accanto a ogni bara doveva esserci un magistrato in toga: non solo di giorno, quando sotto i flash dei fotografi sfilavano le autorità. Il picchetto d’onore alle bare doveva esserci anche di notte, quando dal palazzo erano andati via tutti.

Dottore Di Matteo, cosa ricorda di quella notte?
Il pianto sincero di tanti semplici cittadini. Lontano dai riflettori, a rendere omaggio alle vittime arrivavano persone normali. Passarono dalla camera ardente di Falcone, magari prima di cominciare un’altra giornata di lavoro all’alba. E più in generale ho un ricordo di stravolgimento, che non potrò mai dimenticare. Ancora ne parlo con qualcuno di quei colleghi che, come me, erano giovani a quel tempo: sono convinto che ci porteremo per sempre dentro quel profondo coinvolgimento emotivo. Le stragi rappresentano un punto di non ritorno.

Ventinove anni dopo quel punto di non ritorno, ancora sappiamo di non sapere. Alcune delicate indagini, tra Firenze e Caltanissetta, sono ancora in corso, altre sono state archiviate: le sentenze dicono che non conosciamo tutta la verità sulle bombe del 1992 e 1993. È ancora possibile ricostruire come andarono davvero le cose? O è il caso di metterci una pietra sopra?

Assolutamente no, non è il caso di desistere. Non corrisponde al vero dire che non sappiamo nulla. I risultati conseguiti con le indagini e i processi sulle stragi non sono irrilevanti: non era scontato arrivare comunque all’affermazione di responsabilità di decine di esecutori materiali mafiosi.

Da almeno un quarto di secolo, però, si indaga su presunti mandanti esterni, mai – fino a oggi – individuati oltre ogni ragionevole dubbio.
È vero, ma è anche vero che la probabile cointeressenza di ambienti estranei a Cosa Nostra nell’ideazione e nell’esecuzione di quelle stragi è stata delineata proprio grazie alle indagini e ai processi. Semmai bisogna stare attenti a non celebrare quei martiri solo in un certo modo.

Sarebbe?

Fare memoria non può essere solo un esercizio retorico di devozione per le vittime di quelle stragi. Deve significare anche stimolare la ricerca della verità, per colmare le lacune che ancora ci sono. Fare memoria significa ricordare un dato oggettivo.

Quale?

Oggi stanno cominciando a realizzarsi alcuni degli scopi che Cosa Nostra intendeva perseguire nel momento in cui concepì quell’azione di ricatto allo Stato portato avanti con bombe e attentati esplosivi in tutto il Paese.

A che cosa si riferisce?

È certo che Riina e gli altri si muovessero tra le altre cose per abolire l’ergastolo, che significa veramente il fine pena mai, cioè il carcere a vita. L’apertura di alcune sentenze della Consulta e della Cedu a una sostanziale abolizione dell’ergastolo ostativo vanno in questa direzione. E ne sono consapevoli pure i detenuti all’ergastolo che hanno compiuto quelle stragi proprio con quest’obiettivo: in questo momento sanno che possono sperare di tornare liberi.

I giudici della Consulta, però, hanno dato al Parlamento un anno di tempo per riscrivere la legge sull’ergastolo ostativo. Hanno detto che “l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”.

Già da qualche anno, però, quel sistema di contrasto alla criminalità organizzata si sta progressivamente smantellando. È un fatto oggettivo e sto parlando di quel sistema di norme – che passa anche dal 41 bis – concepito da Falcone e poi finalmente entrato a pieno regime con i provvedimenti successivi alle stragi del 1992. Per approvare le leggi inventate da Falcone si è dovuta attendere la strage di Capaci. È per questo motivo che per tutta la magistratura la memoria di quei fatti deve costituire un punto di inizio dal quale ripartire.

Ecco, visto che parla di ripartenza: il caso Palamara ha trascinato la vostra categoria al minimo storico di popolarità. Secondo lei come ha fatto la magistratura di oggi a ridursi così? Cosa e come è cambiato rispetto ai tempi di Falcone?
Non riesco ad avere certezze valutative sul punto. So soltanto che da quando sono entrato in magistratura un cambiamento sostanziale si è avuto con la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006/2007, la cosiddetta riforma Castelli-Mastella.

Perché?
Perché con quella riforma si sono accentuati alcuni fenomeni di degenerazione. Mi riferisco alla burocratizzazione, alla gerarchizzazione, all’accentuazione dei ruoli direttivi. Quello che viviamo oggi è una conseguenza di ciò che è stata la folle corsa agli incarichi di vertice. Cioè il carrierismo, che uccide l’essenza vera del ruolo del magistrato: l’assoluta indipendenza del ruolo.

Ben prima di quella riforma, però, non mancavano i problemi relativi alla gestione del potere tra le toghe. Per rimanere a Falcone sono notissimi gli scontri e i tradimenti subiti da parte del Csm.
Sono d’accordo, e infatti io sono convinto che certe forme di collateralismo della magistratura con il sistema di potere, non solo con la politica, non sono relative solo alle ultime vicende. La storia di Falcone ne è dimostrazione. Il collateralismo di parte della magistratura, soprattutto di quella che ricopriva incarichi di autogoverno, ha costituito una sorta di resistenza del sistema rispetto a coloro che hanno avuto il coraggio di accendere un riflettore sui rapporti tra la mafia e il potere.

Quindi non è rimasto sorpreso dall’esplosione del caso Palamara?
No, il caso Palamara non fa venir fuori fenomeni nuovi. E quindi rispetto a quanto sta emergendo la magistratura deve smetterla di sorprendersi in modo ipocrita. Deve indignarsi, non fare finta di sorprendersi. Bisogna rendersi conto che da troppo tempo ormai i magistrati liberi, coraggiosi e indipendenti vedono il Csm come un organo dal quale diffidare, fonte di possibili ritorsioni. Bisogna capovolgere questa situazione.

In che modo?
Ci vuole il coraggio di capire che la difesa a oltranza della magistratura deve essere rivolta non solo agli attacchi esterni ma anche a quelli interni. Il Csm dovrebbe essere baluardo di quei colleghi indipendenti, di quelli che non appartengono a nessuna parrocchia. Oggi il rischio che corre la magistratura è duplice. Da una parte non dobbiamo neanche lontanamente dare l’impressione di voler archiviare troppo in fretta quello che è emerso.

E dall’altra?
Ci dobbiamo rendere conto che se il cambiamento non parte da noi, saranno altri a cambiare la magistratura. E io temo che tra questi altri ci siano anche coloro che, nascondendo la loro reale volontà dietro la prospettiva riformista, vogliano limitare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, per subordinarla al potere politico.

A chi si riferisce?
C’è una volontà trasversale ai vari schieramenti politici che vorrebbe sfruttare le difficoltà attuali per regolare i conti con la magistratura.

Che però negli ultimi tempi non ha dato una grande immagine di sé. Non è d’accordo?
Certamente. Oggi è normale, direi perfino giusto, che si descriva la magistratura anche come un gruppo di funzionari dello Stato in guerra per l’acquisizione di potere. Io non mi stupisco, non sono tra quelli che si scandalizzano della grande evidenza che viene data al caso Palamara. Ma bisogna ricordare anche altro.

Cosa?
Che la storia della magistratura è stata anche, e soprattutto, un’altra. È stata l’avamposto che in totale solitudine ha combattuto la mafia e il terrorismo, proteggendo la democrazia del Paese. L’autonomia e l’indipendenza dei giudici non sono privilegi di casta ma garanzie poste a tutela dei più deboli, di chi non ha nessuna capacità economica, politica, finanziaria. La storia della magistratura è stata anche questa, non solo quella di una banda di giudici di potere.

A proposito di bande di giudici di potere: lei è stato eletto consigliere del Csm nonostante non sia mai stato iscritto ad alcuna corrente. È dunque possibile fare questo mestiere senza far parte di alcun gruppo? O al contrario crede che tutto ciò abbia avuto conseguenze negative sulla sua carriera?
Sarei ipocrita se dicessi di non aver passato momenti di difficoltà a causa del mio essere estraneo al mondo delle correnti o delle cordate, che sono più pericolose delle prime perché non sono manifeste.

Si riferisce ai procedimenti disciplinari aperti all’epoca in cui indagava sulla Trattativa Stato-mafia?
Non parlo solo del mio ruolo giudiziario, ma anche di tutte le occasioni in cui avevo presentato domande per incarichi direttivi e semidirettivi. Poi è chiaro che il magistrato che non appartiene a nessuna corrente o cordata può essere pregiudicato anche nelle legittime aspirazioni di carriera, soprattutto se si espone, indagando o giudicando delle incrostazioni di potere all’interno delle istituzioni. Io credo che proprio questi siano i magistrati da difendere e proteggere da possibili ostracismi istituzionali dovuti al loro lavoro.

A proposito di ostracismi: due anni fa il procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, la allontanò dal pool di cui lei faceva parte alla Dna. Le contestava alcune non meglio specificate dichiarazioni rilasciate durante un’intervista televisiva dedicata proprio alla strage di Capaci. Ha poi scoperto quali fossero quelle dichiarazioni top secret?
No, non l’ho scoperto. Quell’esclusione è stata immotivata e ingiusta: non c’erano presupposti formali e neanche sostanziali, perché in quell’intervista non avevo detto nulla che non fosse consacrato in atti pubblici e sentenze definitive.

Sulla decisione di De Raho doveva esprimersi il Csm.
Ma non lo ha mai fatto: quando stava per farlo il procuratore ha revocato la sua decisione.

Dal trojan di Palamara sappiamo che l’ex pm di Roma era molto soddisfatto della sua cacciata dal pool creato per indagare sui mandanti esterni delle stragi. Lo stesso Palamara che doveva fare da mediatore tra il Quirinale e la procura di Palermo nel 2012, al tempo del conflitto d’attribuzione sollevato dal Colle. Non è una curiosa coincidenza?
A questa domanda ho difficoltà a rispondere, perché dovrei entrare nello specifico di questioni connesse ad altre vicende che oggi devo valutare come consigliere del Csm. Quindi non posso entrare nello specifico. Mi limito a dire che le affermazioni di Palamara devono essere approfondite e valutate nell’ottica di un determinato contesto. Un contesto così complesso che lo stesso Palamara non poteva esserne l’unico protagonista.

Nell’aprile del 2018 lei ha partecipato a un evento a Ivrea organizzato dalla fondazione Casaleggio. Da quel momento il suo nome è stato spesso accostato a un possibile governo guidato dai 5 stelle. Almeno fino allo scontro in diretta televisiva che l’ha contrapposta all’allora guardasigilli Bonafede. È rimasto deluso da quella vicenda?
Guardi, la delusione sarebbe un convincimento personale che preferisco tenere per me. Posso ricordare solo alcuni fatti. Intanto io non ho mai cercato alcun esponente politico: sono stati altri a cercare me. In seconda battuta posso dire di aver partecipato più volte a dibattiti sulla giustizia o sulla lotta alla mafia organizzati da movimenti o partiti politici. Sono andato a Ivrea così come andrei volentieri altrove se mi invitassero a parlare di queste questioni legate alla giustizia e della lotta alla mafia.

Andrebbe anche a un dibattito di Forza Italia?
Se mi invitano… il problema non è dove si va, il problema è quello che si dice. Fare memoria è anche ricordare ai cittadini determinati fatti consacrati in sentenze definitive.

Per esempio?
Per esempio che c’è una sentenza definitiva in cui si considera provata la cosiddetta Trattativa, aperta dopo la strage di Capaci su iniziativa di provenienza istituzionale: vuol dire che fu lo Stato il primo a cercare Cosa Nostra. Quella stessa sentenza dice anche che quella decisione alimentò la strategia stragista della mafia: Riina capi che lo Stato aveva compreso e decise di continuare con le bombe. In un’altra sentenza, sempre definitiva, c’è scritto invece che venne stipulato un patto tra le famiglie mafiose e Silvio Berlusconi: Marcello Dell’Utri è stato condannato come intermediario di quel fatto almeno fino al 1992. Vale la pena ricordare che i due, Berlusconi e Dell’Utri, sono i fondatori di Forza Italia. Questi sono fatti: quasi trent’anni dopo la strage di Capaci abbiamo il dovere di ricordarli. Anche perché c’è una parte di Paese che cerca di insabbiarli sistematicamente.

*L’intervista è pubblicata sul numero in edicola di Fq Millennium, il mensile del Fatto Quotidiano

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