C’erano i buoni che in realtà erano cattivi. E poi c’erano i cattivi che erano pure peggio. In mezzo c’era lui: un comune poliziotto che lavorava al servizio Volanti del commissariato San Lorenzo di Palermo. Apparentemente Nino Agostino si occupava di posti di blocco e contravvenzioni. In realtà dava la caccia al latitanti. Quelli di Cosa nostra, che all’epoca si chiamavano Totò Riina e Bernardo Provenzano e comandavano un esercito completamente mimetizzato nella vita di ogni giorno. Al bar, per strada, in banca: nel 1989 a Palermo la mafia non era un’anomalia, era routine. “Quest’omicidio è stato fatto contro di me“, dirà davanti alla bara di quell’agente di polizia, il magistrato Giovanni Falcone: avevano ucciso un investigatore che lavorava con lui, seppur in via riservata. Troppo riservata: fino a oggi di quella collaborazione non si sapeva nulla. Non si poteva: il principale testimone di tutta quella storia, cioè lo stesso Falcone, è stato fatto saltare in aria. E sull’omicidio di Nino Agostino e di sua moglie, Ida Castelluccio, sono calati tre decenni di silenzio.

Sembra una storia da film, di quelli americani col finale a sorpresa che arriva dopo, molto dopo, quello ufficiale. Questo, però, non è un film ma la storia di un duplice delitto quasi dimenticato, ingoiato dalle cronache di bombe e morte degli anni ’90. Agostino e la moglie li ammazzano poco prima, alla fine di una giornata di mare: il 5 agosto del 1989, davanti casa dei suoi genitori, a Villagrazia di Carini, spuntano in due su una motocicletta e cominciano a sparare. Nino apre il cancello e col suo corpo fa scudo a Ida. Che si volta, guarda in faccia i motociclisti e grida: “Io vi conosco“. Quelli rispondono e la colpiscono al cuore: era incinta da tre mesi e sposata da uno.

Trentadue anni: tanto ci è voluto per portare a processo e condannare all’ergastolo Nino Madonia, uno di quei killer che Cosa nostra usava per i delitti particolari. Quello Agostino era particolarissimo, senza movente e senza colpevoli: perché assassinare in quel modo un semplice agente in servizio alla sezione Volanti del commissariato di San Lorenzo, a Palermo? Perché farlo mentre si trova insieme alla moglie nella casa sul mare? E poi: come è possibile che ci siano voluti 32 anni per arrivare a una condanna di primo grado? “Questa sentenza è un miracolo“, dice l’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia Agostino. Vincenzo, il padre del poliziotto ammazzato, in Sicilia lo conoscono tutti perché ha una lunghissima barba bianca. Non la taglia dal 1989, dal giorno in cui gli hanno ammazzato il figlio e la nuora davanti casa: una sorta di fioretto laico che rispetterà, dice, fino a quando non emergerà tutta la verità.

Avvocato Repici, con la sentenza di oggi arriva un pezzettino di verità sul caso Agostino?
No, non è un pezzettino di verità. È un risultato storico per il distretto giudiziario di Palermo perché arriva dopo 25 anni di depistaggi e di una vera e propria distruzione della verità.

In che senso distruzione della verità?
Un collega di Nino Agostino fece scomparire gli appunti scritti dallo stesso Agostino, che prevedeva il suo assassinio, dormiva con la pistola sul comodino, e per questo si era tutelato. Ecco perché va sottolineato il risultato storico della procura generale di Palermo guidata da Roberto Scarpinato e dai sostituti Domenico Gozzo e Umberto De Giglio. Sono arrivati alla sentenza di condanna di Nino Madonia, il più pericoloso esponente della stagione corleonese di Cosa nostra a Palermo. Uno che ha avuto come principale capitale sociale le relazioni privilegiate con gli apparati deviati dello Stato e del Sisde.

Per molto tempo il caso Agostino è stato liquidato come un duplice omicidio senza colpevoli e senza moventi. Perché si dovuti attendere 32 anni prima di arrivare a una sentenza?
Perché l’omicidio Agostino è stato eseguito da due uomini di Cosa nostra, legati ad apparati dello Stato, e cioè Nino Madonia e Gaetano Scotto. Ma è stato commesso anche nell’interesse di apparati deviati dello Stato che poi sono intervenuti nell’attività di depistaggio.

In che modo?
L’attività di occultamento della verità è stata posta in essere in una maniera così spregiudicata tale da occultare e far sparire delle informazioni che erano emerse fin da subito. La sera stessa dell’omicidio un collega di Agostino, il poliziotto Domenico La Monica, aveva riferito al capo della Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, che proprio Nino Agostino si occupava della ricerca di latitanti. Informazione che è stata recuperata solo recentemente.

Già il giorno dopo, davanti alle bare di Agostino e della moglie, Falcone disse al commissario Montalbano: “L’omicidio di questi due ragazzi è stato commesso contro di me”. Che cosa significa?
Che fin dall’immediatezza il magistrato più esperto nei fatti di Cosa nostra aveva capito cosa fosse l’omicidio Agostino. Falcone era il principale testimone di quel duplice assassinio. Purtroppo venne eliminato il 23 maggio del 1992 con la strage di Capaci. E per la verità su Nino e Ida sono serviti altri trent’anni.

Chi era Nino Agostino? E perché è stato assassinato?
Era un umile agente di Polizia desidoroso di servire lo Stato. Ed era un poliziotto coraggioso. Negli ultimi tempi della sua carriera è stato accertato che aveva accettato di partecipare alla ricerca dei latitanti di Cosa nostra. Un’attività borderline, ma istituzionalmente organizzata col coordinamento dell’Alto commissariato antimafia, dei servizi di sicurezza e della polizia.

Un terreno minato.
Esatto. E infatti, mentre era impegnato in quest’attività, Nino Agostino divenne testimone scomodo delle contiguità di alti funzionari della polizia e dei servizi sicurezza con i mafiosi del mandamento di Resuttana, cioè quello di Nino Madonia, il suo killer. Bisogna considerare che il mandamento di Resuttana, per delega diretta di Riina, si occupava delle relazioni tra Cosa nostra e gli apparati istituzionali. Accadevano cose incredibili in quella zona di Palermo.

Per esempio?
Alcuni anni fa vennero intercettati due poliziotti della squadra Contrada che raccontavano dell’esistenza di un poligono di tiro in cui andavano a sparare poliziotti, mafiosi e uno come Pierluigi Concutelli, il neofascista che è stato “covato” personalmente dalla famiglia Madonia e che poi uccise il giudice Vittorio Occorsio.

Cosa nostra, apparati dello Stato ed eversione neofascista: tutti insieme nello stesso spicchio di Palermo.
Già, per questo io ho parlato di una trinità a monte dell’omicidio Agostino. Ma c’è un’altra cosa.

Quale?
Negli ultimi mesi di vita Nino Agostino, così come è stato dimostrato dalle indagini, era entrato in rapporti di collaborazione con il giudice Falcone.

Che tipo di collaborazione?
Collaborava sia nell’attività prestata per la scorta di un testimone che veniva sentito in quel momento da Falcone, cioè l’estremista di destra Alberto Volo. Sia per le attività di cui si occupava personalmente Falcone, che si era circondato in modo riservato dell’aiuto di alcuni esponenti della Polizia.

Tra questi Nino Agostino?
È stato accertato che Falcone aveva un rapporto fiduciario con Agostino. L’uccisione del poliziotto avviene nel momento più incandescente dell’estate del 1989, cioè l’estate in cui ebbe la stura la stagione stragista. Fu il periodo in cui a causa di uno scontro feroce che scoppiò all’interno degli apparati dello Stato, uomini come Falcone – a cui tutti i cittadini italiani sono debitori – si trovarono in condizioni di sovraesposizione. Furono obbligati a doversi tenere al riparo dall’attività di altri organi istituzionali e allo stesso tempo dovettero affidarsi alla collaborazione di soggetti fiduciari. Tra questi, sicuramente, c’era Nino Agostino.

Quella fu l’estate dell’attentato all’Addaura, delle polemiche contro Falcone accusato di essersi messo da solo l’esplosivo sotto casa, e anche delle “menti raffinatissime” come le definì lo stesso giudice. Secondo lei, a cosa si riferiva?
A quell’assetto di interessi che portà anche all’uccisione di Nino Agostino. Putroppo dopo l’omicidio Agostino, Falcone operò riservatamente e riservatamente cercò di trovare il bandolo della verità. Ma nulla di questo venne reso ufficiale in documenti formalmente utilizzabili: con la strage di Capaci venne fatto fuori non solo il nemico numero uno di Cosa nostra, ma anche il principale testimone dell’omicidio Agostino.

Questa è una storia di ombre e luci che s’intersecano. Per esempio la procura generale sostiene che Agostino lavorasse in un “gruppo riservato”, una sorta di squadra speciale di cattura latitanti. Ma dentro questa squadra c’erano anche personaggi come Giovanni Aiello, meglio noto come “Faccia da mostro”, che prima di morire – nel 2017 – fu pure indagato per l’omicidio del poliziotto.
Se è per questo in quel gruppo c’era anche Guido Paolilli, il poliziotto intercettato mentre diceva di aver stracciato “una freca di carte” dall’armadietto di Agostino. Venne indagato per favoreggiamento e archiviato per prescrizione, ma la famiglia lo ha citato in giudizio in sede civile.

Dunque Agostino lavorava con le persone che depistarono le indagini sul suo omicidio?
Agostino iniziò l’attività di poliziotto sotto l’egida del più anziano ispettore Paolilli, che era non solo suo collega ma anche suo amico. Ed era un uomo di assoluta fiducia di Bruno Contrada. Il problema di Agostino è che iniziò a svolgere quell’attività di ricerca di latitanti sotto l’egida di Paolilli e di quello che c’era dietro Paolilli, ma la svolgeva da poliziotto onesto. Si trovava in un osservatorio che gli consentì, putroppo, di vedere quello che è stato poi raccontato da collaboratori di giustizia e testimoni istituzionali: un abbraccio continuo tra alcuni esponenti dello Stato e Cosa nostra. Questo è stato uno dei due motivi per i quali fu ucciso Nino Agostino.

Quale è l’altro?
Quello più vicino all’interesse di Cosa nostra: proteggere i latitanti. Agostino negli ultimi tempi di vita era sulle tracce di Riina e Provenzano. Dal giorno dopo il suo matrimonio andava costantemente a San Giuseppe Jato dove in quel momento si trovava latitante Riina. Tutto questo nella consapevolezza di un personaggio che era lo zio acquisito della moglie, mafioso e uomo dei Brusca. Per questo motivo l’omicidio di Nino Agostino e Ida Castelluccio è un omicidio commesso a mezzadria tra uomini di Cosa nostra e dello Stato.

Il caso Agostino è stato legato alla figura di Emanuele Piazza, ex poliziotto che collaborava col Sisde nella ricerca dei latitanti, scomparso nel nulla nel marzo ’90. Secondo gli inquirenti anche Piazza lavorava nel “gruppo riservato” di Agostino. Quanti sono i “casi Agostino” che non abbiamo capito negli ultimi trent’anni anni?
Ci furono sicuramente almeno quattro personaggi attivi nella ricerca di latitanti che furono uccisi tra il maggio del 1989 e il marzo del 1990. Si tratta di Nino Agostino, di Emanuele Piazza, di Giacomo Palazzolo, di Gaetano Genova. Agostino, però, era l’unico a indossare una divisa in quel momento.

Madonia ha preso ergastolo in abbreviato, ma il giudice ha ordinato anche un duplice rinvio a giudizio: per il boss Gaetano Scotto e per Francesco Paolo Rizzuto, un vicino di casa degli Agostino, accusato di favoreggiamento. Questo sarà un processo che sarà celebrato in aula coi testimoni.
E noi chiameremo a testimonianre tutti i soggetti istituzionali, ancora vivi, per dimostrare quella verità spaventevole che è stato l’omicidio Agostino-Castelluccio. Cioè un omicidio commesso nell’interesse anche di settori infedeli dello Stato.

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