di Serena Verrecchia

L’assalto al dpcm è il tormentone delle ultime, terribili giornate. Un tormentone che attraversa il dibattito politico del Paese lasciandosi dietro un cumulo di sporcizia. Sporcizia che poi si addensa e va ad ingrossare le cataste di detriti e macerie che la pandemia ci sta lasciando in eredità.

È tutta la porcheria dialettica che si è ammucchiata negli ultimi mesi. La tragedia della pandemia non è solo nei numeri dei contagi, nei dati sanitari o negli strascichi economici e sociali. La tragedia della pandemia sta anche nella putrefazione delle idee, lasciate lì a mendicare le briciole, esposte alla prima folata di vento.

Da nove mesi sembra di assistere alla grande asta dei pensieri: se ne mette uno sul tavolo e lo si lascia al migliore offerente finché non invecchia, marcisce. E l’opera di decomposizione è molto veloce, permette un ricambio costante. Così chi oggi dice che il lockdown sarebbe la misura più legittima, domani va in piazza a strillare che bisogna riaprire tutto.

Funziona così: l’ipocrisia è la grande ruota che manda avanti il Paese. In natura, nulla si crea e nulla si distrugge: tutto si trasforma. Anche le posizioni politiche, le ideologie più granitiche. Va bene tutto purché, nella perenne campagna elettorale della vita, si porti acqua al proprio mulino. Non importa quale sia il contenuto del dpcm, basta contraddirlo. Perché, nel bel mezzo di una crisi mondiale, qualche elemento di criticità è facile ravvisarlo. Allora bisogna stare tutti lì, avvinghiati alle decisioni di quei pochi, giuste o sbagliate che siano, per trascinarli nel fango e ricoprirli di polvere.

E non per prendere il loro posto, non ora – perché nessuno vorrebbe dover mettere la propria firma sotto un dpcm, addossandosene la responsabilità. Semplicemente per indebolirli, fiaccarli, imbrattarli con un po’ della poltiglia ripugnante che avanza dai pallottolieri e lasciarli esposti al ludibrio della gente.

Quello che si è visto negli ultimi nove mesi non si è mai visto per i vent’anni in cui alla guida del Paese, a fasi alterne, c’è stato un soggetto che sborsava soldi per Cosa nostra. L’indignazione che prolifera nel Paese oggi – e non parlo di quella, sacrosanta, di gente disperata che sta perdendo tutto, ma di quella più subdola di tutta la pletora di farisei, di quel nugolo di sciacalli sempre pronti a mordere la disperazione, di quel chiacchiericcio ipocrita che scava a man bassa nella protesta, negli intestini incazzati – non s’è mai vista per i mille scandali con cui questo Paese si è alimentato per decenni. Mai vista per le verità negate, per i depistaggi di Stato, per l’isolamento di quelle frange di giusti che combattono in trincea contro i nemici di tutti.

Va bene la mafia, va bene la corruzione, vanno bene il clientelismo che abbiamo contribuito ad alimentare per anni, le politiche scellerate che hanno caratterizzato gli ultimi decenni della storia d’Italia; vanno bene i ladri in Parlamento, i pregiudicati nei ministeri, le collusioni tra mafia e politica, l’inquinamento, gli ultras per le strade, un sistema di informazione semplicemente raccapricciante. Va bene tutto, ma questo governo no. Questo governo non s’ha da tenere. Né domani, né mai. E allora, Presidente, faccia una bella cosa: chiuda l’Italia e butti via la chiave. Verranno, prima o poi, tempi migliori.

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