di Giorgio Brizio*

Sette anni, 102 giorni, 14 ore, 20 minuti e 35 secondi. “Questa è probabilmente la serie di numeri più importante al mondo”, ha detto Andrew Boyd. È il tempo che ci resta prima di superare l’ultimo punto di non ritorno ed evitare una catastrofe climatica irreversibile.

A scandire il tempo è l’orologio installato in pieno centro a Manhattan, sotto (sopra) gli occhi di tutti, dove nessuno può ignorarlo. Altrettanto sotto gli occhi di tutti è ormai l’incontrovertibile avanzata della crisi climatica e delle sue conseguenze.

Inaugurato sabato 19 settembre nell’ambito della Climate Week, culminata il 25 settembre con il Global Day of Action, il countdown è stato installato sotto la supervisione degli artisti Boyd e Golan.

Il “Climate Clock” si basa sulle più recenti dati dell’Ipcc, gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sul clima: in mancanza di efficaci interventi entro il primo gennaio 2028, le temperature della Terra sono destinate ad aumentare ben oltre gli 1,5 gradi Celsius, limite massimo stabilito dall’Accordo di Parigi.

L’opera ricorda il Doomsday Clock, l’orologio dell’apocalisse, un’iniziativa ideata nel 1947 da un team di scienziati dell’Università di Chicago, che consiste in un orologio metaforico che misura il pericolo di una ipotetica fine del mondo a cui l’umanità è sottoposta, in cui la mezzanotte è sinonimo di catastrofe mentre i minuti che la precedono rappresentano la distanza stimata dall’evento in questione.

Dopo i picchi del 1953 e del 1960, a causa del superamento delle 23mila testate nucleari esistenti, dell’avanzare dei cambiamenti climatici e dell’indebolimento della cooperazione internazionale, il 2020, che sembra non essere certo un periodo fortunato, è divenuto l’anno di massima vicinanza alla mezzanotte, con appena 100 secondi.

Oltre a quello di Union Square, che invece da qualche giorno non registra quanto manca alla mezzanotte ma il tempo che abbiamo per agire, esistono altri “orologi climatici” in giro per il globo, come a Berlino o sul polso di molte attiviste e attivisti.

L’obiettivo dell’Accordo di Parigi è considerato un traguardo ambizioso, ma in realtà significherebbe fermarsi sull’orlo del baratro. Quand’anche fossimo miracolosamente in grado di raggiungerlo – al momento dovremmo avere una probabilità del 5% – vivremo in un mondo molto meno ospitale di quello che conosciamo e molti dei cambiamenti in corso saranno nella migliore delle ipotesi irreversibili.

Nel saggio Saving the Planet begins at breakfast (Guanda, 2019) Jonathan Safran Foer elenca alcuni dei punti di non ritorno che abbiamo già oltrepassato o che raggiungeremo a breve senza possibilità di poterli ormai evitare. Riporto fedelmente le sue parole:

“Se contro ogni aspettativa riusciremo in effetti a limitare il riscaldamento globale a 2 gradi:

• Il livello dei mari salirà di mezzo metro, sommergendo le coste di tutto il globo. Dacca (18 milioni di abitanti), Karachi (15 milioni), New York (8,5 milioni) e decine di altre metropoli diventeranno di fatto inabitabili. Si calcola che 143 milioni di persone siano destinate a diventare migranti climatici;

• Si stima che i conflitti armati aumenteranno del 40 percento a causa dei cambiamenti climatici;

• I ghiacci che ricoprono la Groenlandia saranno soggetti a uno scioglimento irreversibile;

• Dal 20 al 40 percento della foresta amazzonica verrà distrutto;

• L’ondata di caldo che si verificò in Europa nel 2003 — che costò la vita a più di 70mila persone, comportò 13 miliardi di euro di perdite nei raccolti e portò i fiumi Po, Reno e Loira ai minimi storici — diventerà la norma;

• La mortalità umana subirà un drammatico incremento dovuto a ondate di caldo, inondazioni e siccità. Asma e altre malattie respiratorie si diffonderanno a dismisura. Le persone a rischio di malaria aumenteranno di centinaia di milioni;

• 400 milioni di persone dovranno affrontare carenze idriche;

• Il riscaldamento degli oceani danneggerà in modo irreparabile il 99 percento delle barriere coralline, alterando gli ecosistemi di nove milioni di specie;

• Metà di tutte le specie animali rischieranno l’estinzione;

• Il 60 percento di tutte le specie vegetali complessive rischierà l’estinzione;

• La resa del grano diminuirà del 12 percento, quella del riso del 6,4 percento, quella del mais del 17,8 percento, quella della soia del 6,2 percento;

• Si stima che il Pil pro capite diminuirà a livello globale del 13 percento.”

Come potete vedere, questi dati riguardano – e affliggono – in buona parte l’uomo. Non le api, gli orsi, le balene o chissà quale altro animale esotico in qualche posto sperduto, noi. Noi tutti e tutte.

Di fronte alle dure e inquietanti constatazioni di Foer verrebbe in mente di fermarsi, inermi, e lasciare che la burrasca ci travolga. Come quando si è in mare però, anche se in modo controintuitivo, non bisogna farsi spaventare bensì affrontare l’onda.

Il cambiamento climatico è, in termini generali e semplificati, un gigantesco problema sociale, economico, ambientale, causato dagli esseri umani, che impatta sugli esseri umani e che solo gli esseri umani possono arrestare. Sta a noi tutti dunque compiere delle piccole azioni e prendere delle scelte nella nostra quotidianità che, se sommate a quelle di tanti altri, possono fare la differenza, e soprattutto lottare assieme per un sistema più equo che abbia la giustizia climatica come cardine fondante.

“L’umanità ha il potere di aggiungere tempo all’orologio, ma solo se lavoriamo collettivamente e misuriamo i nostri progressi rispetto a obiettivi definiti” hanno detto gli ideatori del Climate Clock in un’intervista.

Venerdì 9 ottobre saremo in piazza in tutta Italia per chiedere al governo di impegnarsi seriamente per fronteggiare la crisi climatica e ambientale e di agire di conseguenza. Possibilmente entro la mezzanotte.

* Diciannove anni, attivista per i diritti umani e della Terra. Studia scienze internazionali dello sviluppo e della cooperazione all’Università di Torino. Si occupa da qualche anno di immigrazione e ambiente, scrive per alcune testate online.

Articolo Precedente

Sicilia da record per i nidi di tartaruga. Il veterinario che le cura: “Segnale di speranza, troppo spesso ferite da barche e ami”

next
Articolo Successivo

Blackrock, la svolta verde è solo a parole. Scendono ancora i voti del colosso a favore di risoluzioni societarie pro-ambiente

next