È comparso su un grattacielo a Union Square, New York: un enorme orologio digitale – il “Climate Clock” – che indica gli anni rimasti, sette, prima della fine del mondo (o meglio, gli anni che abbiamo per agire perché la fine del mondo sia reversibile). L’installazione ricorda immediatamente il più noto Doomsday Clock, l’Orologio dell’apocalisse di Chicago, nato nel momento della Guerra Fredda, in pieno incubo nucleare, e le cui lancette sono aggiornate via via a seconda dei vari rischi per l’umanità (tra cui, appunto, la crisi climatica nel 2020).

Mentre leggevo la notizia di questo nuovo monito, mi chiedevo al tempo stesso quanto il registro apocalittico, che di fatto l’orologio sposa, sia utile perché le persone, e i governi, finalmente capiscano l’urgenza della crisi climatica. Perché se davvero strumenti come il Climate Clock fossero strategici, ci si dovrebbe aspettare che le persone, passando davanti, si fermassero per poi restare lì, scioccate, piangendo per i soli sette anni di vita che ci restano, andando subito a protestare sotto le sedi dei governi. Invece, le persone continuano a passare, con passeggini, cani, indifferenti.

Il problema è quello di sempre, che chi si occupa di ambiente conosce bene, anche se non è facile trovare strade alternative. Il fatto che la crisi climatica non sia stata affrontata quando ancora il tempo c’era – proprio in questi giorni mi è passato per le mani un report dell’Ipcc (The Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organo scientifico che si occupa di clima per l’Onu, in cui di fatto c’è scritto esattamente quanto accaduto poi – fa sì che ora dobbiamo affrontare un’emergenza climatica senza precedenti in un tempo estremamente ridotto.

E tuttavia, quando alle persone viene comunicato che “non c’è più tempo” queste smettono di agire. Si rifugiano nel loro privato, mettono in atto meccanismi difensivi di vario tipo. E forse a ragione, tutto sommato perché se non c’è più tempo allora la conseguenza è la paralisi. Il circolo vizioso si fa ancora più insolubile: più le persone si mettono in difesa, più gli ambientalisti alzano il tono della voce e dell’allarme, gridando più forte, e continuando tuttavia ad essere relativamente inascoltati, con relativa, immensa, loro frustrazione.

Ma allora che fare? Come rompere il circolo vizioso che spinge da un lato chi sa quanto grave sia la crisi a sentirsi obbligato a urlare questa gravità, visto il pericolo di vita dell’intera umanità, mentre dall’altro le persone normali finiscono per sentirsi schiacciate dall’impotenza proprio dall’urgenza di questa crisi e dai toni apocalittici? Un primo, grande aiuto verrebbe senz’altro dal fatto che la politica si facesse carico della crisi climatica. Perché la politica è mediazione e il suo compito dovrebbe proprio essere quello di tradurre gli allarmi degli ambientalisti in azione, rendendo possibile ad attivisti e cittadini – anche ragazzi giovani – di sentirsi meno caricati dello sforzo di portare la salvezza del mondo interamente sulle proprie spalle.

La stessa responsabilità, come non mi stanco di ripetere, ce l’hanno i media, che invece continuano a oscillare tra l’indifferenza alla crisi climatica e articoli messi ogni tanto, a casaccio, allarmisti e apocalittici anch’essi, non accompagnati da alcuna spiegazione o ragionamento utile a “spegnere le fiamme”.

Gli ambientalisti, categoria vastissima nella quale certamente mi annovero anche io, dovrebbero invece forse fermarsi, sì: fermarsi! Almeno un attimo, a riflettere sui modi della loro azione e della loro comunicazione. Non c’è dubbio che spiegare e allarmare le persone su cosa sta succedendo sia giusto. Come è giusto, come fanno sia i Fridays for Future che il movimento Extinction Rebellion, scendere in piazza o mettere in atto azioni plateali per rendere visibile la crisi. Proprio grazie a questi allarmi, e manifestazioni, la gente è stata sensibilizzata, altrimenti chissà dove saremmo.

E tuttavia servirebbe anche, ripeto, cominciare ad analizzare i nostri stessi fallimenti. Ad esempio notando – almeno parlo per me – quanto spesso siamo infastiditi noi stessi da articoli o messaggi carichi di angoscia apocalittica, pur facendo magari noi la stessa cosa. Una contraddizione che dovrebbe farci riflettere. Personalmente, ad esempio, comincio ad essere insofferente non solo agli articoli ma anche alla quantità di libri, ormai ne escono a dozzine, con titoli apocalittici come Siamo fottuti, Terra bruciata, L’umanità in pericolo etc. etc. Sono inutili per noi che già sappiamo tutto, e inutili per gli altri che non spenderebbero mai quindici euro per cadere nella disperazione.

La psicologia umana per certi versi è semplice. La motivazione nasce solo quando c’è uno spazio di speranza. Potrebbe essere persino uno spazio psicologico non fondato sulla realtà, insomma illusorio, ma se non c’è le persone non agiscono. In altri termini, ciò che voglio dire è che sì, la crisi è drammatica. Ma urlare a chi si vuole coinvolgere che tra sette anni suo figli sarà spacciato non aiuta. Bisogna lasciare, ripeto, uno spazio di possibilità. Bisogna raccontare il cambiamento non come una cosa da fare subito pena morte immediata, ma come una cosa certo urgente perché bella, giusta, utile per tutti. Bisogna dire ai ragazzi che ci sarà una chance di vita per loro.

Forse bisognerebbe, me ne sto convincendo sempre di più, persino usare un po’ l’autoironia, registro antiapocalittico per eccellenza. Vorrei ricordare a questo proposito il regista Mattia Torre, autore di un libro e poi una serie tv sul tumore che lo ha colpito, La linea verticale, che non mi stanco di rivedere. Ebbene, Mattia Torre è stato capace di parlare del tema più drammatico in maniera ironica, anzi comica, trasmettendo al tempo stesso, ma in maniera indiretta, con tatto magistrale, il senso del tragico di quella vicenda.

Mattia Torre non c’è più, perché proprio quella malattia, tre anni dopo, lo ha ucciso. Ma la sua, per me, resta la più grande lezione narrativa sul male. Forse, più che plaudere all’orologio dell’Apocalisse, dovremmo imparare da lui.

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