di Mariachiara Pollola*

Era la sera del 9 marzo 2020 quella in cui il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato a tutti gli italiani che l’Italia si sarebbe fermata, che per un po’ le vite di tutti, o quasi tutti, sarebbero state bloccate in un limbo in cui nessuno avrebbe potuto prevedere di rimanere tanto a lungo. “E’ per questo che sto per firmare un provvedimento che possiamo sintetizzare con l’espressione Io resto a casa”, ci ha detto. E allora abbiamo infilato le chiavi nelle serrature delle nostre case e lì dentro ci siamo confinati.

Noi studenti universitari ci siamo ritrovati così, paralizzati, vedendo le nostre paure e le nostre incertezze ingigantirsi giorno dopo giorno e adesso facciamo quasi fatica ad immaginare come potrà essere tornare alla vita di sempre, alle pause caffè, alle aule studio, agli esami scritti su un foglio senza venti telecamere a filmarti e una connessione internet che gioca a flipper.

Siamo stati travolti dall’ignoto e dalla paura. Da un giorno all’altro ci siamo ritrovati a fuggire dalle città che ci avevano accolti o da soli e spaesati, affacciati ai balconi, a cantare con la gente del vicinato per sentirci in famiglia. Poi, piano piano le vite hanno iniziato ad ingranare di nuovo, le giornate ad assumere un ritmo tutto nuovo. È arrivata la soluzione: la didattica a distanza. Il futuro dell’Università, ci hanno detto alcuni. Ma si sbagliavano. E di molto.

Perché non sanno, o dimenticano, che uno scritto di Analisi non è uguale se lo si fa a crocette, che l’esame di Diritto Privato è più difficile se a guardarti ci sono 200 persone (201 se aggiungi te stesso riflesso), che un vetrino non si analizza al pc e che un rilievo non puoi farlo su Google Maps che, semmai, ti dà un’indicazione, proprio quella che cercavamo e che continuiamo a cercare.

Vorremmo sapere se e quando torneremo tutti nelle aule a seguire le lezioni, se potremo laurearci senza ciabatte ai piedi, se potremo evitare tirocini in smart working, se potremo fare una vera revisione, vorremmo soltanto un po’ di certezze in più. Le abbiamo chieste. Abbiamo chiesto di ripartire, ma di farlo in sicurezza, partendo dalle prime ore fino alle ultime della giornata, per tornare a vivere il digitale come un’aggiunta per i nostri studi e non come l’unica alternativa.

È chiaro. Il rientro in sicurezza, in un paese che mai avrebbe previsto di dover far fronte ad una pandemia mondiale, non si riorganizza in pochi giorni, ma in sei mesi, forse, sì. Abbiamo chiesto l’implementazione e il potenziamento delle piattaforme digitali universitarie, poiché sono tutte, chissà perché (?), alogiche e obsolete.

Abbiamo chiesto di tornare a studiare nelle biblioteche, nelle aule studio e nei laboratori, perché il futuro lo si costruisce lì dentro e non ammassati agli aperitivi nei lidi o nelle discoteche, cosicché lo slogan “Meglio abbronzati che laureati” possa restare una semplice battuta estiva. Abbiamo chiesto un sistema di trasporto pubblico efficiente, che ci faccia sentire protetti, non pressati in una latta di sardine scadute.

Abbiamo vissuto un agosto di quasi completa normalità: la ripresa economica è importante, ma per sostenerla altrettanto importante è il futuro di chi, negli anni a venire, dovrà reggere sulle proprie spalle e nelle proprie tasche il peso di 69 giorni di chiusura.

Abbiamo chiesto di essere ascoltati e lo faremo ancora. Come rappresentanti abbiamo il privilegio di farci portavoce degli studenti, di riportare l’attenzione su tutti i problemi rilevati, affinché vengano risolti o almeno presi in considerazione.

“Confederazioni degli Studenti” è il nome che, nel lontano 1994, venne dato alla nostra organizzazione studentesca, forse senza capirne davvero il significato più profondo. Una confederazione di persone che, mai come in questi mesi, ha assunto il suo massimo vigore. In rappresentanza degli studenti di tutta Italia, connessi da un unico grande problema, abbiamo fatto più che mai fronte comune.

Abbiamo lavorato per mesi, tenuto riunioni su riunioni, proposto alternative, richiesto tutele e garanzie. Oggi, all’alba della riapertura, vorremmo semplicemente sentirci dire “È tutto pronto, tornate in aula a studiare”, per ricominciare a vivere gli anni universitari con l’unico cruccio giornaliero di non aver studiato abbastanza ma, per il momento, non è ancora così. Noi restiamo a casa.

*Consigliera nazionale degli studenti universitari

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