“Tutti gli illeciti più gravi sono stati commessi in piena epoca Covid” constata amaramente il sostituto procuratore di Piacenza Grazia Pradella, commentando l’arresto dei 10 carabinieri nella caserma di Piacenza. Da tempo vado contro la vulgata psico-favolistica che ha intravisto nel tempo pandemico una sorta di agente purificatore degli animi umani capace di instaurare nel mondo un nuovo ordine di amore e fratellanza. Al contrario, sono convinto che il diluirsi della luce abbia posto le basi per l’emersione di pulsioni inconfessabili e difficilmente praticabili in tempo di “normalità”.

Basti osservare gli scoppi di violenza intrafamiliare nei mesi di chiusura, suggellati sovente da frasi quali “chiama pure il 112, ora non vengono certo ad aiutarti”. Per quanto possa apparire paradossale, è proprio nei periodi storici nei quali alcune libertà sono limitate e il controllo centrale aumenta che si vengono a creare zone “franche” nelle quali alcuni individui predisposti pensano di poter soppiantare la legge instaurando piccoli regimi autocefali, nei quali il loro volere assoluto assurge a regola, certi di una sorta di intangibilità (“A noi non arriveranno mai”).

Nell’animo di questi soggetti scatta la convinzione: “la legge sono io”. Non è un caso che negli stati totalitari, laddove l’autorità è folle e sregolata, i “servitori” spesso si sentano liberi di mostrare la loro peggior natura sadica e violenta, certi che nessuna sanzione potrà mai arrivare. Tuttavia il pervertimento della legge da parte di uomini dello Stato che in alcuni casi balza alle cronache non aveva, dopo i fatti di Genova, raggiunto quel limite indicibile che ci troviamo a commentare nel caso di Piacenza.

A detta di che ciò la stampa riporta non si tratterebbe di un semplice appartenente alle forze dell’ordine sorpreso a rubare, o di un militare denunciato per aver abusato del potere che la divisa gli conferisce. Qua parliamo di un’intera caserma – la casa della legalità, assurta, a detta degli inquirenti, a quintessenza del reato – ove i reggenti avrebbero fatto il bello e il cattivo tempo, attingendo a piene mani da quel mondo illegale e violento che avevano il compito di isolare e rendere innocuo e dal quale avrebbero dovuto proteggerci.

Qui la legge ordinaria sarebbe stata sospesa, così come la funzione di tutela del cittadino, soppiantate da livide pulsioni sadiche. Stando alle notizie abbiamo a che fare con qualcosa di qualitativamente diverso dal semplice reato. Tra quelle mura sarebbero stati adottati in maniera sistematica comportamenti volti ad instaurare un ordine parallelo e antitetico alla legge, fatto di codici, usanze, modalità di repressione fisica che parrebbero attingere da codici malavitosi. “Hai presente le scene di Gomorra? Guarda che è stato uguale”.

Saremmo dunque in presenza di un processo di sostituzione e inserimento all’interno di una catena delinquenziale. Un edificio deputato alla garanzia del diritto era de facto diventato una zona porosa ove la legge veniva sbriciolata e diluita in un torbido torrente malavitoso. Un salto di qualità preoccupante che implica necessari provvedimenti da chi di dovere. Siamo in presenza di un allarme che lo stato e i vertici dell’Arma non possono ignorare. Dobbiamo cominciare a porci il problema, seriamente, dei parametri che vengono utilizzati come filtro per l’arruolamento nelle forze dell’ordine.

I criteri di valutazione, tesi a dedurre se in alcuni animi si annidi il godimento per la violazione, la prevaricazione o lo sfruttamento, esistono. Esistono professionisti capaci di individuarli, al netto di dissimulazioni e furberie. L’Arma deve implementare gli strumenti che utilizza per l’accesso alla divisa con il sapere che offre la clinica, dotandosi di uomini e strumenti capaci di individuare nuclei di perversione o tendenze prevaricatrici.

Come ho avuto modo di scrivere, non si diventa torturatori per caso, poiché il sadico trae ab origine un godimento infinito nel ridurre l’altro a oggetto, ottenendo soddisfacimento in maniera proporzionale alla sofferenza che riesce a infliggergli. Ed è su questi tratti che deve posarsi con maggior efficacia uno sguardo più attento, clinicamente formato, più capace di individuare e respingere chi domanda di indossare una divisa senza avere i necessari anticorpi alla perversione.

Lo sdegno dall’alto non basta più, il problema non può più essere rimandato, attribuito a cause specifiche o occasionali. L’Arma è un plinto della nostra democrazia, il carabiniere una figura scritta indelebilmente nella nostra vita familiare. La benemerita è quel punto di garanzia convocato ogni qual volta la nostra sicurezza viene percepita essere a rischio. Dunque oggi l’inevitabile l’imbarazzo di chi la governa a fronte di questo episodio deve sapersi tramutare in una coraggiosa opera di ridefinizione dei criteri di accesso in quella che è non solo un arma dell’esercito, quanto un pezzo della nostra storia.

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