Tenevano i soldi della cassa comune, conoscevano i flussi finanziari del mercato della droga e, quando qualcuno ritardava nella consegna dei soldi erano pronte a farsi “un giro”. Le donne sono le assolute protagoniste del blitz antimafia Camaleonte. L’ultima indagine della procura di Catania che ha portato alla notifica di un’ordinanza nei confronti di 58 persone: 44 finite in carcere, due agli arresti domiciliari, accusate a vario titolo di associazione mafiosa, ricettazione e traffico di droga, mentre per altre sedici il gip ha disposto l’obbligo di dimora. Il clan dei Cappello-Bonaccorsi continua, nonostante le numerose operazioni di repressione, a controllare in modo militare interi quartieri del capoluogo etneo grazie a una vera e propria educazione mafiosa dei suoi picciotti. Gli stessi che nelle intercettazioni si paragonavano a dei fedeli soldati in trincea: “I vecchi mi hanno spiegato che un vero guerriero deve mantenere sempre la sua posizione, anche se restiamo da soli”, diceva uno di loro intercettato. Per i magistrati della procura, coordinati dall’aggiunto Ignazio Fonzo e dalle sostitute Tiziana Laudani e Antonella Barrera, in quelle parole c’è tutto l’orgoglio di chi è affiliato ai clan.

L’affare d’oro continua a essere quello della droga. Sempre con le piazze di spaccio, che rimangono un presidio di controllo del territorio, ma anche con un lucroso canale di rifornimento da Catania all’isola di Malta. Dall’arcipelago arrivavano richieste di cocaina, hashish e marijuana con cadenza quasi settimanale. A fare da intermediario un catanese d’esportazione, Alfio Strano. Ufficialmente impiegato di un supermercato ma già finito nei guai nel 2014 quando venne sorpreso insieme ad altri conterranei proprio mentre cercava di consegnare cinque chili di droga. Gli investigatori, grazie ai trojan piazzati negli smartphone degli indagati, monitorano i contatti con due intermediari maltesi e anche alcuni summit avvenuti a Catania nell’estate 2017, all’interno di una stalla del quartiere popolare San Cristoforo.

Il nome più noto dell’inchiesta è quello di Mario Strano, conosciuto con l’appellativo siciliano di acchiana e scinni (sali e scendi) per i suoi trascorsi di rapinatore in trasferta tra Veneto e Lombardia. Insieme ai tre fratelli (non indagati in questo procedimento) per diversi anni ha gestito gli affari criminali nel quartiere di Monte Po per la famiglia di Cosa nostra dei Santapaola, salvo poi decidere di transitare ai Cappello. I pentiti lo descrivono come un personaggio “furbo, quasi come un filosofo o un politico, manipolatore di persone”. A Strano i poliziotti hanno arrestato praticamente tutti i parenti. Oltre alla moglie Anna Russo dietro le sbarre è finita la figlia Concetta e il compagno di quest’ultima Luigi Scuderi. Manette anche per la cognata Pina Russo, il marito Salvatore Culletta e il nipote Giuseppe.

“Io me la sbrigavo con la moglie e la figlia di Mario – racconta ai magistrati l’ex narcotrafficante, adesso pentito, Sebastiano Sardo – gli davo i soldi e parlavo con loro. Lì le femmine sono pericolose, comandano più dei maschi”. Parte dei proventi della droga, secondo gli inquirenti, sarebbero stati ripuliti in investimenti leciti. “Ti ho dato 58mila euro – spiegava il genero alla moglie del boss – però 40mila li abbiamo sugli hoverboard”. Nei nuovi equilibri mafiosi si sarebbe mossa a suo agio anche Alessandra Rapisarda, moglie di Massimiliano Salvo, l’uomo detenuto al 41bis considerato dalla procura l’attuale capo del clan Cappello. La donna per gli affiliati era “una priorità” scrive il gip nell’ordinanza, in virtù della “devozione” di alcuni picciotti nei confronti del marito, tanto che alcuni ipotizzavano pure di chiamare un eventuale figlio con il nome del capomafia. In più occasioni, la donna avrebbe rivendicato lo stipendio per i suoi familiari detenuti, come avvenuto nei confronti del suocero, oltre a fare da filtro con il marito per continuare a gestire il clan.

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