Chiedono da tempo giustizia e verità. Una richiesta fatta con la stessa pacatezza e con altrettanta forza a tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi 4 anni e mezzo in Italia. Paola e Claudio Regeni, genitori di Giulio il ricercatore torturato e ucciso in Egitto all’inizio del 2016, sono ormai stanchi e nel corso della trasmissione Propaganda Live su La7 in merito alla vendita all’Egitto di due fregate italiane, approvata dal Governo, hanno detto: “Lo Stato italiano ci ha tradito. Siamo stati traditi dal fuoco amico non dall’Egitto”. L’Italia ha dato il via libera, quattro giorni fa, alla vendita di due fregate Fremm all’Egitto. Si tratta di due navi della Marina militare italiana, le ultime due delle dieci ordinate: la “Spartaco Schergat” e la “Emilio Bianchi”, per un valore stimato di circa 1,2 miliardi di euro. L’affare fa parte di una commessa ancora più ampia che, come ha riportato dal Fatto Quotidiano, dovrebbe comprendere anche altre 4 fregate, 20 pattugliatori d’altura di Fincantieri, 24 caccia Eurofighter Typhoon e 20 velivoli da addestramento M346 di Leonardo, più un satellite da osservazione, per un valore totale fra i 9 e gli 11 miliardi di euro. L’accordo tra Roma e Il Cairo sulle prime due fregate era stato riferito all’Ansa e sarebbe arrivato in seguito alla telefonata tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il leader egiziano al-Sisi. Un via libera confermato ieri con un’informativa del premier, a cui nessuno si sarebbe opposto durante il cdm. Solo due giorni fa il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, aveva dichiarato che la vendita non era stata autorizzata e la richiesta di verità sull’omicidio di Giulio Regeni restava “incessante”.

Non intendiamo farci prendere più in giro dall’Egitto: non basterà inviarci quattro cianfrusaglie, indumenti vari e chiacchiere o carta inutile. Basta atti simbolici, il tempo è scaduto dopo quattro anni e mezzo il tempo è scaduto” ha aggiunto il padre del ricercatore, che poi è tornato a sottolineare l’esigenza di chiarezza: “Chiediamo una risposta esaustiva a tutti i punti della rogatoria del 29 aprile 2019 rimasta priva di risposta – ha continuato – e la consegna delle cinque persone iscritte nel registro indagati dalla procura italiana perché possano essere processate in Italia: finché non avremmo ottenuto queste due cose ci sentiremo traditi”. Da quella iscrizione, dicembre 2018, sono passati 18 mesi. A Sabir Tareq, generale. Usham Helmy e Ather Kamal, colonnelli. Magdi Sharif, maggiore. Mhamoud Najem, agente, la procura di Roma contesta il reato di concorso in sequestro di persona. Il ricercatore friulano scomparve il 25 gennaio 2016 e fu trovato morto il 3 febbraio sulla strada che collega la capitale con Alessandria d’Egitto. Le autorità egiziane in un primo momento riferirono che il giovane poteva essere stato vittima di una rapina, ma i segni di tortura raccontarono tutta un’altra storia. Le indagini italiane hanno presto identificato nelle ricerche fatte dal dattorando, che studiava a Cambridge, il movente del suo omicidio, e a individuare nei servizi segreti egiziani responsabilità pesantissime in ordine quanto meno al sequestro.

“Uno non può aspettarsi di lottare contro il proprio Stato per ottenere giustizia. Lo stato italiano ci ha tradito – hanno aggiunto – il 17 luglio del 2017 quando ha rinviato l’ambasciatore al Cairo e adesso vendendo le armi. Un tradimento per tutti gli italiani, per quelli che credono nella giustizia e nella inviolabilità dei diritti. Non possiamo sentirci certo traditi dall’Egitto per tutto quello che hanno fatto a nostro figlio e dopo quattro anni e mezzo di menzogne e depistaggi”, hanno aggiunto durante l’intervista. “Abbiamo visto e vissuto tanta ipocrisia e la vendita di questa due navi e le armi sono la ciliegina sulla torta. In questi 4 anni e mezzo abbiamo visto tante zone grigie in Egitto e in Italia. Noi abbiamo fiducia nella scorta mediatica, nelle migliaia di persone che ci seguono, nella Procura di Roma, negli investigatori”, hanno aggiunto affermo inoltre di avere “fiducia anche nel presidente della Camera, Roberto Fico, che oggi ci ha chiamati per dirci che sta con noi e per sapere come stiamo“.

Prima della luce verde definitiva manca solo l’ok dell’Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento, che dovrà solo certificare che la vendita dei materiali militari sia avvenuta nel rispetto delle normative italiane e internazionali. Firma che,è attesa già “nelle prossime ore”. Il tutto prima che il presidente Conte riferisca davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta, in seguito alla richiesta avanzata dal presidente in quota LeU, Erasmo Palazzotto, Ultimo a protestare ieri è stato il deputato del Pd, Matteo Orfini, che poco prima della conclusione del Cdm aveva annunciato che “lunedì insieme ad altri presenterò alla direzione del Pd un ordine del giorno che chiede di interrompere la vendita di forniture militari all’Egitto. Spero che molti lo sottoscrivano e che venga approvato senza tentennamenti”. Per quel giorno, probabilmente, l’Uama avrà però già dato il via libera definitivo.

Ma nei giorni scorsi c’erano state anche le proteste di altri deputati di maggioranza che, a Ilfattoquotidiano.it, avevano chiesto in coro il passaggio parlamentare, come previsto dalla legge 185/90 e come avviene per le decisioni riguardanti la politica estera, oltre che dichiarare che una scelta del genere rappresentava uno schiaffo alla memoria di Regeni e anche a Patrick George Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna in carcere al Cairo dal 7 febbraio. La richiesta era arrivata da Laura Boldrini del Pd, Luca Fratoianni di LeU e anche dalla portavoce alla Camera del Movimento 5 Stelle Yana Ehm. Appelli però non ascoltati dall’esecutivo. Intanto, nelle prossime settimane è previsto un nuovo incontro in videoconferenza tra i magistrati italiani e quelli egiziani per fare il punto sulle indagini relative all’omicidio del ricercatore di Fiumicello. Al centro del meeting anche la rogatoria inviata dai pm di Roma con la quale si chiedono conferme all’autorità giudiziaria del Cairo in merito alla presenza a Nairobi, nell’agosto del 2017, di uno dei cinque indagati a Roma, il maggiore Sharif, che secondo un testimone avrebbe raccontato delle “modalità del sequestro di Giulio” nel corso di un pranzo. I pm hanno inoltre sollecitato agli omologhi egiziani l’elezione di domicilio degli indagati (tutti appartenenti agli apparati di sicurezza) e infine dati sui tabulati telefonici.

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