Il Covid-19 ha portato via tante cose. A qualcuno, gli affetti più cari. Ad altri, il lavoro. A molti, la serenità. A tutti i ragazzi ha portato via gli ultimi mesi di scuola. Una manciata di mesi in fondo non sono nulla, in confronto a ciò che è stato. Anche tutta la retorica della notte prima degli esami di maturità, del rito di passaggio generazionale che sfuma in una mera formalità burocratica da espletare nel modo più indolore possibile, non è nulla in confronto al resto.

Che sarà mai? A settembre, forse prima, ognuno comincerà la sua vita, troverà la sua strada; la scuola è solo un posto dove si passa del tempo per prendere un foglio di carta. Forse che sì, forse che no. Forse quello che il virus ci ha portato via non è un esame; del resto chi lo rimpiange un esame? E’ fatto solo di ansie e paure, lo si sogna per tutta la vita, si ripresenta come un incubo alla vigilia delle scelte difficili, per qualcuno si rivela spesso ingiusto, ingrato e inutile.

E’ che la mattina dell’esame di maturità, anzi, della prima prova (che, diciamocelo, chiamiamo ancora tutti “il tema”), dopo una notte tormentata che neanche l’Innominato e una colazione in cui quei due biscotti sembrano stazionare nello stomaco senza decidersi mai a scendere, dopo aver preso posto in un banco singolo messo in corridoio, dopo aver estratto la biro portafortuna, aver tolto il braccialetto per scrivere più svelti, dopo aver cercato con gli occhi sgomenti il compagno di banco, dopo aver vagliato seriamente l’ipotesi di alzarsi e cominciare a correre come la gazzella che si sveglia tutte le mattine in Africa, dopo aver letto le tracce, aver fatto scendere l’aria nei polmoni ed essersi resi conti che sì, una traccia la si può anche fare; dopo tutte queste cose ci si accorge di essere, ancora una volta, tutti insieme.

L’orale è diverso, all’orale si arriva per gruppi, rare le classi compatte dove tutti sono presenti ad incoraggiare i compagni. Ma quel fatto lì, di essere tutti insieme (insieme a gente che magari non hai mai sopportato, o insieme a compagni di sventura che cinque anni prima ti sembravano intollerabili e poi sono diventati fratelli), quel fatto lì non torna più.

Quest’anno ci ho badato una volta sola, per pura casualità, e l’ho fatto notare, senza sapere quale infausta profezia avessi per le mani. Era una mattina di gennaio, era il giorno di una verifica di recupero. Erano tutti presenti, che non è così scontato, in certe classi poi. Erano tutti presenti e me ne sono accorta perché l’aula scoppiava, non c’era la solita sedia in più dove ammonticchiare la borsa dei libri, il sacchetto con il pranzo, la borsetta, la bottiglia d’acqua, lo sciarpone che d’inverno fa freddo.

Stavo per distribuire i fogli e mi è scappato, così, senza pensarci: “Ragazzi. Fateci caso. Guardatevi. Siete tutti. Non capiterà molte volte, giusto agli esami. Così non sarete mai più. Qui dentro poi, in quest’aula, neanche all’esame. Siete voi, tutti voi, ora. Potete desiderare di essere altrove, di essere con altre persone, ma la vostra classe è questa, quella dove per cinque anni avete imparato a essere quello che siete, nel bene o nel male. Le persone che avete intorno vi hanno in qualche maniera influenzato, o cambiato. Alcune resteranno nella vostra vita, altre pensate di frequentarle ancora ma non è vero, altre ancora non le vedrete più. Guardatevi“.

Si sono guardati. Gli habitué dell’ultimo banco, gli aficionados del davanzale, gli amanti delle prime file. La distesa di zaini per terra, la fila di panini sul termosifone. Poi mi hanno detto: “Prof, ce le dà o no, le verifiche?”. Giusto, le verifiche. Che scema, mica è l’ultima volta che li vedo. E invece tutti insieme non li vedrò più e sono grata di averci fatto caso, quel giorno.

Il Covid-19 ci ha portato via tante cose, che almeno in cambio ce ne abbia lasciata una. La capacità di notarle, le cose belle, quando le abbiamo davanti.

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