Io avevo delle certezze nella vita, prima del Covid-19. Mi svegliavo al mattino, davo una breve scorsa alle prime pagine dei quotidiani, facevo un giro per i siti specializzati sulla scuola. Ne seguiva regolarmente un’incazzatura, a volte impercettibile, soltanto un lieve fastidio; altre volte, invece, una furia cieca, nei confronti di una qualche riforma, di un qualche provvedimento, di un punto di vista. Mi legavo alla sedia come l’Alfieri per resistere alla tentazione di attaccare rissa nei forum dedicati, e poi, carica di caffeina e adrenalina, davo inizio alle lezioni.

Adesso, a parte la caffeina – quella c’è sempre – leggo le notizie sulla scuola e non so cosa dire. Sì, una qualche strisciante forma di fastidio la trovo sempre, altroché, però davvero su certi temi non so cosa pensare, non so come si possa fare. Prendiamo l’esame di maturità. Sto leggendo tutti gli spoiler, perché escono anticipazioni in dose così massiccia neanche fosse l’ultima puntata del Trono di Spade. Di sicuro sarà avvincente uguale.

I rumors dicono che la maturità sarà solo orale ma in presenza. Il mio cuore sussulta. Non ho ben capito perché. E’ paura, quella che provo? E’ sollievo? E’ ora di mettere qualcosa di solido nello stomaco, oltre a tutto quel caffè, poi ci credo che non dormo? Da una parte sogno di rivedere i miei maturandi, almeno una volta, almeno nel finale di stagione, dopo questa follia che ci ha tenuti lontani. Dall’altra penso al fatto che dovranno muoversi persone, entrare in contatto, oddio il contagio, oddio stare in una stanza con altra gente, oddio cosa sono diventata. Agitata da due venti, mi dibatto come le sorelle Dashwood tra ragione e sentimento. Sempre stata più come Marianne, io.

Penso ai miei ragazzi. Mi immagino questa scena da film distopico in cui loro entrano, soli, in un’aula vastissima, per quanto possano esistere aule vastissime nelle nostre scuole, e si trovano davanti sei volti coperti dalle mascherine. Sei astronauti, lontani. A noi commissari è negata anche la gioia di sussurrare al collega “questo è bravo sul serio”; a noi umanisti è precluso persino il diletto proibito di scriversi due battute al volo, mentre il candidato da 30 minuti disserta eroicamente di turbine eoliche. Sei figure separate dal plexiglass. Un minuto di silenzio per l’idea di stare dietro un separè di plexiglass in un’aula italica esposta al sole nel mese di giugno. Che poi ‘sti separè mi fanno un po’ stazione, tipo “biglietto? abbonamento?”.

Ma loro, io penso a loro. Che io me lo ricordo con quale conglomerato di timore e tremore, afasia, stomaco in subbuglio, secchezza delle fauci mi sono seduta davanti alla commissione di maturità, figurarsi questi che si ritrovano in un set fantascientifico con il cuore a mille e neanche ci vedono bene in faccia. E vorrei proprio vedere che facce avremo, appena fuori da qui: neanche mi riconosceranno i miei alunni con questi venti centimetri di ricrescita grigia, mi scambieranno per un membro esterno, “prof, di italiano c’era una vecchia, non c’era mica lei”.

Sarà meglio così? Sarà meglio questo che una videochat tenuta in piedi da connessioni ballerine, problemi di audio, video frizzati, colleghi “mutati”, voci fuori sincrono? Non lo so, non ne ho idea. So soltanto che, se così sarà, devo allenarmi molto. Intanto a indossare con disinvoltura queste benedette mascherine, che ho pure gli occhiali e vedo tutto appannato. Ma soprattutto, visto che mi coprono la bocca, devo imparare a fare tutto con gli occhi. Avvertire, suggerire, ammonire. Imbeccare. Incoraggiare. Soprattutto sorridere.

*professoressa presso l’Istituto professionale Lombardi (Vc). Autrice della pagina Facebook Portami Il Diario

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