L’Unità d’Italia, che si realizzò compiutamente con la breccia di Porta Pia del 1870, venne battezzata da una catastrofe emblematica: l’alluvione romana di fine dicembre dello stesso anno, la peggiore del secondo millennio. Fu il castigo di Dio, con cui Nostro Signore reagiva all’affronto del Re sabaudo che aveva rovesciato il soglio papale. Se questa non era una spiegazione scientifica condivisibile dai liberali più colti, era comunque l’interpretazione autentica dell’evento da parte del massimo esperto che, all’epoca, poteva trattare ex-cathedra la materia divina, Papa Pio IX.

La piena che inondò la futura capitale, molto più grave delle precedenti di cui si aveva memoria, causò vittime e danni in così larga misura da provocare una forte emozione nel paese. Tanto da costringere il Re d’Italia, assai riluttante, a scendere nella nuova capitale, visitando Roma per la prima volta dopo l’annessione dello Stato Pontificio. E venne naturale ai piemontesi accusare l’ignavia e la negligenza del governo pontificio per la gravità dell’impatto che l’evento aveva rovinosamente prodotto in città.

Oggi il panorama fluviale romano è cambiato completamente, poiché il Tevere scorre ingessato in un nastro rigidissimo e del Porto di Ripetta restano solo le testimonianze pittoriche. I muraglioni dell’ingegner Raffaele Canevari – la cui costruzione iniziò solo nel 1875, vincendo l’ostilità del generale Giuseppe Garibaldi che aveva sostenuto un progetto alternativo, per terminare nell’anno santo 1900 – hanno ridotto in modo significativo la pericolosità delle alluvioni: il tronco cittadino del fiume è in grado di convogliare portate assai superiori a quella preunitaria.

E da 150 anni lo Stato interviene – direttamente o attraverso gli organi periferici – su larga parte dei corsi d’acqua italiani, grandi e piccoli, sempre con la stessa logica, pur adottando anche metodi diversi dai murazzi, come gli scolmatori e gli invasi di laminazione.

Dall’alluvione romana del 1870 a quelle padane del 1872 e venete del 1882, fino agli episodi più recenti, le azioni di mitigazione del rischio hanno avuto come principale obiettivo la riduzione della pericolosità alluvionale. Gli argini del Po non soltanto sono più alti di quelli ottocenteschi, ma anche più solidi, nonostante l’attivismo di alcune specie animali che li abitano: nell’arco di tempo che va dal 1801 al 1876, lungo l’asta del Po erano state contate ben 214 rotte d’argine, mentre dal 1918 al 2014 le rotte sono state soltanto sei, tre delle quali durante la piena del 1951.

Avere abbassato di un metro la platea di Ponte Vecchio a Firenze riduce di un terzo la portata che entrerebbe in città nel corso di un evento paragonabile alla piena del 1966, un disastro alluvionale che commosse il mondo intero. Ma non va dimenticato lo scopo secondario di queste azioni: agevolare l’urbanizzazione di porzioni, le più vaste possibile, di aree riparie messe in “sicurezza” dalle opere idrauliche.

Da quando studio questi problemi, colgo un costante brontolio, da parte dei decisori politici, delle imprese e dell’opinione pubblica all’unisono: è una questione di soldi. Tutti lamentano la carenza dei fondi dedicati a questo capitolo di spesa, senza riflettere che, comunque, lo Stato spende almeno due miliardi di euro ogni anno per questa voce; e lo fa da 150 anni, spesso sull’onda della catastrofe più recente.

A braccio, il conto totale ammonta a circa 300 miliardi attualizzati, assai più dei 100 che vengono invocati ora come viatico per la “messa in sicurezza” del paese. Se abbiamo già portato a casa più di tre quarti dell’opera, dovremmo perciò sentirci più virtuosi di quanto comunemente crediamo; o c’è qualcosa che non torna in questa banale semplificazione? Sulla mia pagina Facebook ho chiesto agli amici, molti dei quali esperti in materia, se il rischio alluvionale in Italia sia complessivamente aumentato rispetto a quello del secolo passato o, invero, si sia ridotto.

Ho ricevuto risposte articolate e ben argomentate: tutto dovrebbe essere reso il più semplice possibile, ma non più semplice del necessario se il mondo scientifico ambisce a farsi capire. Ribadisco perciò il quesito: in Italia, il rischio alluvionale sta complessivamente aumentando rispetto a quello del secolo scorso o, in alternativa, è già sensibilmente diminuito e lo si sta progressivamente riducendo?

Vale anche la terza via, quella cara al Principe di Salina: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?”. E chiedo ai lettori di esprimere francamente la propria opinione nei commenti.

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