Cinema

Joaquin Phoenix, il fuoriclasse maledetto che vide morire il fratello River e pianse l’amico Heath Ledger (già Joker da Oscar)

Dal tormento all'estasi, l'interprete del Joker è un attore fin da quando ha imparato a camminare. Trentatrè film, molti premi, due nomination all'Oscar e un talento immenso

di Davide Turrini

Dal tormento all’estasi. Joaquin Phoenix è finito sul tetto del mondo. Grazie al Joker interpretato per Todd Phillips è balzato in quelle orbite spaziotemporali che Hollywood regala ai fuoriclasse maledetti. Tanto che basta uno starnuto e il web impazzisce. Poche ore fa l’incidente con la sua Tesla che si disintegra velocissima contro un camion dei pompieri e subito la massa di fan, e non solo, pensa di rivivere il mito di James Dean o Heath Ledger, suo amico e già Joker da Oscar.

Troppo oltre il suo Joker, troppo devastante e devastato quel pagliaccio triste e vessato che ribalta le convenzioni sociali inneggiando alla ribellione. All’ombra e al capezzale del fratello maggiore River sembrava destinato Joaquin. In quel tumulto di famiglia girovaga e hippie che a cavallo degli anni sessanta/settanta attraversò rapida praterie americane e centroamericane (Joaquin nacque nel 1974 mentre erano a Portorico). Che film è la vita. Rain, Summer, Liberty, e ancora River e Jodean, fratelli e sorelle che sembrano arrivare come folletti colorati dai boschi e non da un trilocale con patio e garage attiguo. Joaquin è forse quello più ombroso e introverso raccontano i biografi. Quello con il segno sul labbro che tutti scambiano per leporino. Mamma e papà si ritrovano spesso senza lavoro e mandano i figlioli in strada a cantare per raccogliere qualche spicciolo.

Prima che arrivino gli assistenti sociali ecco che una direttrice di casting per la tv nota Joaquin e River. A 8 anni il futuro Commodo de Il Gladiatore (per cui fu candidato all’Oscar) è già a recitare perfino negli spot. Unico rifiuto: Coca-Cola e McDonald’s. Grazie lo stesso, siamo vegani e anticapitalisti. Joaquin dirà sempre che non volle più mangiare esseri viventi quando vide sbudellare pesci su un peschereccio in Florida da bambino. Essere o non essere non è mai stata un’opzione plausibile. Joaquin è un attore fin da quando ha imparato a camminare. Trentatrè film, tra cui già il clamoroso serioso e spassoso (finto) ritiro dalle scene (I’m still here, 2010), Phoenix (cognome peraltro farlocco e inventato da mamma) veleggia da almeno vent’anni nei piani alti del cinema con numerosi premi.

Recitare, ha spiegato spesso, gli ha rapito la vita. Quando ancora si faceva chiamare Leaf al posto di Joaquin, stazionava in tv e raccolse il fratello River in preda alle convulsioni quella tragica notte tra il 30 e il 31 ottobre del 1993. Il dannato Viper Room Club di West Hollywood ci ha tolto la fulgida bellezza di River e dopo (c’è un altro ritiro in mezzo di un anno, vero) ci ha regalato l’aspra e intensa vitalità di Joaquin. Con una frangetta adolescenziale e il futuro cognato Casey Affleck viene sedotto come un gonzo da Nicole Kidman in Da morire di Gus Van Sant.

Lavora per Oliver Stone (U-Turn), Joel Schumacher (8mm – Delitto a luci rosse) ma quando a dargli mezzo palco è James Gray per The yards, Joaquin risulta più credibile dell’intero cast. È M.Night Shyamalan a concedergli così grande spazio sia in Signs che in The village (le mazzate all’alieno in Signs del Merrill ex giocatore di baseball sono quasi esilaranti), poi ecco il ruolo del figlio del sanguinario e dolente figlio dell’imperatore Marco Aurelio, e infine il Johnny Cash in I walk the line. Prima tizio turbolento e inquieto poi musicista sporcato dalla vita, il Johnny/Joaquin è un clone da urlo, tutto nervi e corde pizzicate rudemente. C’è ancora Gray a fargli strada, in quel cinema dannatamente di serie A2 che fa da anni con risultati che oscillano tra il capolavoro e l’irrisolto.

Tra i primi c’è Two Lovers dove Phoenix è Leonard, povero figlio di lavandai newyorchesi, a cui capita, dopo una vita difficile, all’ombra dell’ingombrante famiglia, di dover scegliere all’improvviso di stare con Gwyneth Paltrow o Vinessa Shaw. Phoenix è toccante, fragile, memorabile. Recita in un film romantico e drammatico come un attore consumato. Per questo P.T.Anderson, la sofisticazione astratta di Hollywood anni duemila in persona e regia, lo acciuffa per i capelli e lo fa tergiversare tra la catatonia del detective di Vizio di forma e un altro personaggio al limite come il Freddie di The Master, accanto al compianto Philip Seymour Hoffman e ancora nominato dall’Academy.

Inutile, Joaquin dimostra un’intensa duttilità che accontenta tutti e arrivano le vette assolute: l’introverso Theodore che in Lei di Spike Jonze si innamora della voce di una donna inesistente e il killer barbuto nel godardiano A beautiful day. Joaquin è all’apice della maturità, ma gli manca ancora la trasformazione fisica, la deformazione e sostituzione in scena con il personaggio. Arthur Fleck piomba come un simulacro della possibile perfezione. Il Joker killer dolente rimane attaccato alla pelle dello spettatore. Potete pensarla come volete. Anche che rifare Taxi driver è da fessi. Ma Phoenix non va toccato. Se questo film esiste è perché c’è lui in scena. Sempre. Roba che a un De Niro, ad esempio, non è mai capitato.

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