Verso le dieci e mezza di sera del 9 ottobre 1963, il guardiano della diga del Vajont telefonò all’ingegnere: la montagna strideva in modo sinistro, stava cedendo a vista d’occhio. L’ingegnere lo calmò ma con l’esortazione di stare in guardia: “Meglio dormire con un occhio solo!”. E confortò anche la centralinista di Longarone, che ascoltava la telefonata e si era timidamente intromessa, chiedendo se si stesse correndo qualche pericolo: “Dormite bene!”.

Poco prima delle undici 260 milioni di metri cubi di roccia precipitarono nel lago artificiale, mentre i tecnici manovravano da giorni perché il pericolo era evidente ma nessuno aveva contemplato azioni preventive di protezione civile né avvertito la gente. L’onda causata dalla frana travolse ogni cosa nella valle del Piave, provocando più di duemila vittime. Avrebbero dormito per sempre. La diga è ancora lì.

La strage fu la diretta conseguenza di vari errori umani: avere insistito per costruire la diga in una valle inadatta dal punto di vista geologico, avere invasato le acque in fase di collaudo oltre i margini di sicurezza, innalzando la quota del lago artificiale e avere svasato in modo troppo rapido, innescando così la frana. Infine, non aver predisposto un sistema di allarme e un piano di evacuazione in massa delle popolazioni residenti nelle zone a rischio quando la situazione stava per precipitare.

Dopo il disastro il silenzio è il titolo dell’articolo di Alberto Cavallari a pagina 3 del Corriere della Sera, l’unico che colse il giorno dopo la profondità della tragedia. Dopo le bombe cala il silenzio. E “L’urlo del silenzio” è il messaggio che i sopravvissuti del Vajont hanno lanciato al mondo per non dimenticare, perché la memoria diventa labile in questi casi. Invero, sulla sciagura del Vajont sono stati spesi fiumi d’inchiostro dal gotha del giornalismo italiano e non sempre bene. All’indomani della catastrofe, Giorgio Bocca scrisse su Il Giorno che “si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona e non è cattiva ma indifferente… Non c’era niente da fare, non ci sono rimorsi, non ci sono colpevoli”.

Tutto il contrario del buon senso e dell’evidenza, consolidata solo più tardi grazie a eroi come Floriano Calvino, fratello dello scrittore Italo e ingegnere geologo, giovanissimo partigiano della Brigata Garibaldi Cascione e docente universitario a Padova e Genova. Era l’evidenza di uno Stato colpevole d’inefficienza e omissioni. Calvino fu l’unico esponente del mondo accademico che, al tempo delle indagini della magistratura, accettò di produrre una consulenza tecnica agli inquirenti senza ombra di pregiudizi. Rese così giustizia agli alluvionati e ai parenti delle vittime di una delle maggiori catastrofi che hanno avuto come protagoniste le dighe a livello mondiale, terza o quarta per numero di vittime, dopo i disastri di Banqiao e Shimantan in Cina e di Machchu-2 in India; alla pari con quelli di Johnstown in Usa e di Sempor a Giava. Un impatto confrontabile con quello dello tsunami indonesiano di questi giorni. E lo stesso Calvino fu chiamato come consulente di parte civile dai parenti delle vittime della successiva sciagura di Stava nel 1985.

Dopo il disastro di Stava (268 vittime) fu introdotta la prima prescrizione in materia a fini di protezione civile, ossia la mappatura delle aree potenzialmente inondabili – obbligatoria per tutti i concessionari delle (più di 500) grandi dighe esistenti sul territorio nazionale – a seguito dell’ipotetico collasso dello sbarramento. Ci si accorse finalmente che nel territorio italiano esistono anche le piccole dighe e fu fatto un censimento dei serbatoi artificiali sia tramite telerilevamento, sia con ricognizioni sul terreno: sono circa novemila.

Quello del Vajont è stato uno dei maggiori disastri dell’ingegneria civile. Qualche anno dopo, la Relazione conclusiva della commissione De Marchi per la Difesa del suolo, licenziata nel 1970, afferma che la documentazione sugli eventi negativi deve essere perfettamente conosciuta da chi intende operare sul territorio e in primo luogo, oltre che dai funzionari delle pubbliche amministrazioni, dai professionisti laureati e diplomati, dai docenti e dagli allievi delle scuole corrispondenti a tali professioni. Soprattutto nelle scuole d’ingegneria non dovrebbero essere tollerati il silenzio o le spiegazioni monche, distorte o evasive, sulle difficoltà e sugli insuccessi delle opere d’ingegneria”. Sono parole riferite alla tragedia del Vajont ma valide tutt’oggi, perché bisogna avere il coraggio di spiegare ai giovani come siano potuti accadere molti disastri di questi anni, se vogliamo un futuro più consapevole dei rischi legati all’opera dell’uomo.

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